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Resilienti, resistenti… e competitivi. L’ora più difficile della manifattura

Di Massimo Medugno e Alessandro Bertoglio

Il tempo non è una variabile indipendente. Dobbiamo pareggiare velocemente le attenzioni che gli Stati limitrofi (e quelli extra Ue) mettono sulle bollette di gas e elettricità per le industrie energivore, anche sulla decarbonizzazione. Il commento di Massimo Medugno e Alessandro Bertoglio

L’industria manifatturiera europea, inclusa la carta (ma sono nella stessa condizione altre industrie, vedi acciaio) vivono un momento molto difficile, stretti tra i più alti alti costi energetici e gli obiettivi di decarbonizzazione molto ambiziosi che richiederebbero investimenti massici (un Pnrr ad hoc!).
Basta leggere il rapporto Draghi sulle differenze con gli Usa: 2-3 volte per il costo dell’elettricità, 4-5 per quello del gas. In questo contesto la situazione italiana, è quella della carta italiana in particolare, è ancora più difficile. I costi energetici non consentono di essere competitivi e la produzione nazionale venduta sul mercato domestico non seguono i consumi (+7% rispetto al2023, -20% rispetto al 2022).

Ciò ha un riflesso anche sul riciclo della carta. Va considerato a questo proposito il record di utilizzo di 6,1 milioni di tonnellate del 2022, che sommati delle capacità produttive aggiuntive nel 2022 e nel 2023 (riconversioni da fibre vergini a riciclo) potrebbero dare una prospettiva di utilizzo di almeno 7 milioni di tonnellate. Si tratta di investimenti fatti da gruppi (anche stranieri) proprio in virtù della presenza in Italia di materia prima disponibile.

In conclusione la “capacità nazionale” non ha ancora potuto “coprire” la raccolta per la dinamica dei mercati, per la mancata competitività conseguenza dei costi energetici (li vedremo nel dettaglio più avanti) …e, infine, per l’export extra UE della carta da riciclare che “sconta” costi non allineati con quelli europei a livello di sostenibilità ambientale e sociale. Sotto il profilo degli aiuti di stato va tenuto, poi, presente che nel periodo 1998 -2023 ci sono stati 13 notifiche per il settore della carta per circa 3 miliardi di euro, il 41% dei quali è andato alla Polonia, il 18% alla Germania e il 13% al Portogallo. L’Italia non è “censita” in quest’ambito.

Quanto al gas naturale, il differenziale di prezzo tra il mercato italiano al Psv e quello del Nord Europa al Ttf si è attestato negli ultimi mesi su valori insostenibili per le imprese: ad agosto è stato superiore a 3 euro/MWh con punte ben oltre il 4 euro/MWh. La complicata situazione internazionale dell’Ucraina e le prossime manutenzioni in Norvegia dei gasdotti potrebbero incidere ancora negativamente su questa situazione. Dopo la fase Covid e Post Covid di prezzi impazziti, l’Italia e il mercato del gas italiano tornano ad essere isolati dal resto d’Europa con differenziali non sostenibili. La pressoché totale assenza di importazioni da GNL con il terminale di Livorno, fermo fino a fine anno, e con Ravenna che ancora non è operativo, con ritardi rispetto ai tempi inizialmente previsti, sostiene l’import di gas da tubi e torna a pesare l’effetto del pancaking che non è stato affrontato in questi anni.

Bene i nuovi investimenti in produzione di gas nazionale, come Cassiopea. Resta però inattuata la Gas Release per le imprese gasivore. Può Cassiopea far parte della gas release? Se gli impianti di produzione nazionale si riescono a fare, come mai non si riesce a mettere a terra la gas release? Oggi dal gasdotto Tag, quello che arriva dall’Austria (con gas russo) sta importando a 2,5/3 milioni di mc/h che significa su base annua 20/25 miliardi di mc di gas. Mai visto importare così tanto dopo lo scoppio della guerra. Nel frattempo le importazioni da Algeria sono ridotte probabilmente per manutenzione. Il maggior import da Tag è spinto dal differenziale di prezzo tra Psv e Ttf che rende conveniente l’utilizzo di quel gasdotto.

Da Sud, però, arriva meno gas del solito. L’auspicio è che il piano Mattei possa portare benefici al sistema paese e traferire il beneficio della maggiore economicità del gas del Nord Africa anche alle imprese consumatrici e non solo a quelle importatrici. Oltre al differenziale di prezzo di oltre 3 euro/MWh dovuto alla situazione di mercato italiana, le imprese industriali che sono collegate alle reti di distribuzione, sono ulteriormente penalizzate da un differenziale rispetto alle imprese collegate alla rete di trasporto che può arrivare anche a 8 centesimi di euro al mc. Non è accettabile che imprese gasivore (solo per il fatto di essere collegate alle reti di distribuzione) siano chiamate ad appianare le inefficienze delle reti di distribuzione con costi assurdi che le mettono fuori mercato. Questi oneri di sistema gas per le reti di distribuzione da soli valgono 2/3 volte la riduzione di oneri riconosciuta alle imprese gasivore.

Sul fronte dell’energia elettrica, il differenziale di prezzo del mercato italiano rispetto ai principali mercati europei è inquietante: 37 euro/MWh con la Spagna, 46 euro con la Germania e 73 euro con la Francia. Tutti gli altri mercati elettrici quotano energia a megavattora a 2 cifre mentre l’Italia è sopra i 100 euro da 3 mesi con Terna che annuncia record su record di produzioni di energia a fonti rinnovabili: 44,2% a luglio 2024. 128 euro/MWh ad agosto con 44,2% di fonti rinnovabili: siamo di fronte a un fallimento di mercato? Per quanti concerne l’Energy Release (firmato il Decreto il 23 luglio) è essenziale che il prezzo dell’energia anticipata sia congruo con gli obiettivi della misura: cioè di essere competitivi rispetto ai costi (almeno) degli altri Paesi europei.

Infine, la decarbonizzazione. E qui è essenziale che le misure di decarbonizzazione siano strettamente collegate con i consumi industriali. In questo senso è un buon esempio la norma per il biometano recentemente varata. Un buon esempio, ma che è assolutamente insufficiente rispetto agli obiettivi e alle risorse necessarie. Va subito attuato, in questa direzione, quanto previsto dal nuovo decreto legislativo Ets (approvato definitivamente nel Consiglio dei Ministri del 4 settembre) che prevede che la quota annua dei proventi derivanti dalle aste, eccedente il valore di mille milioni di euro, sarà destinata, nella misura massima complessiva di 600 milioni di euro annui, nel rispetto della normativa europea in materia di aiuti di Stato e della normativa relativa al sistema per lo scambio di quote di emissioni dei gas a effetto serra di cui alla direttiva 2003/87/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 ottobre 2003, al Fondo per la transizione energetica nel settore industriale.

In quest’ambito una misura di attuazione che sostenga l’uso delle biomasse (a fronte dell’incomprensibile bando in Transizione 5.0) in alternativa ai combustibili fossili sarebbe funzionale alla decarbonizzazione del settore, oltre che alla Strategia forestale nazionale, Sullo sfondo un dato di fatto che rischia di incidere profondamente sulle industrie energivore e cioè che tutti gli strumenti per la decarbonizzazione concepiti fino ad oggi, siano essi sull’energia elettrica o sui gas verdi, sono prevalentemente concepiti per supportare lo sviluppo di queste energie dall’unico punto di vista del produttore. E anche quando sono presenti strumenti per sostenere la decarbonizzazione e l’efficienza energetica e l’innovazione delle imprese (per esempio Transizione 5.0) l’accesso a questi strumenti è reso particolarmente difficile, proprio alle imprese che, più di tutte, hanno l’esigenza di decarbonizzare ovvero quelle che possono diventare ancora più efficienti.

In quest’ambito il tempo non è una variabile indipendente. Dobbiamo pareggiare velocemente le attenzioni che gli Stati limitrofi (e quelli extra Ue) mettono sulle bollette di gas e elettricità per le industrie energivore, anche sulla decarbonizzazione. Resilienti, resistenti…e, finalmente, più competitivi.

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