Le guerre in Iraq ed Afghanistan hanno lasciato uno strascico di profonda divisione in seno alla “comunità geopolitica” americana. Un gruppo composito formato da nuovi nazional-conservatori, libertari, paleocon e sinistra radicale ha assunto una posizione di “disimpegno”, che guarda con scetticismo agli interventi militari, punta a ridurre la spesa per la difesa del Paese e la presenza all’estero, nonché a limitare gli impegni al di fuori delle zone strategiche vitali. Il volume “Homeland: the War on Terror in American Life” del giornalista Richard Beck, affronta dal punto di vista dei “limitazionisti” la questione
Conoscere ed analizzare il dibattito negli Stati Uniti attorno alla “War on Terror” bushiana contro il terrorismo islamico significa comprendere la postura di Washington in politica estera oggi. Inutile negare che le guerre in Iraq ed Afghanistan abbiano lasciato uno strascico di profonda divisione in seno alla “comunità geopolitica” (politica, militare, diplomatica, accademica e giornalistica) americana.
La critica agli interventi in Medio Oriente si è trasformata in una critica tout court all’internazionalismo liberale ed al protagonismo statunitense nel mondo. Cosicché un gruppo composito formato da nuovi nazional-conservatori, libertari, paleocon e sinistra radicale ha assunto una posizione di “disimpegno”, che guarda con scetticismo agli interventi militari, punta a ridurre la spesa per la difesa del Paese e la presenza all’estero, nonché a limitare gli impegni al di fuori delle zone strategiche vitali.
L’ultimo libro sulle guerre mediorientali, “Homeland: the War on Terror in American Life” del giornalista Richard Beck, affronta dal punto di vista dei “limitazionisti” la questione. Se è comunque vero che la guerra contro Saddam Hussein fu determinata dalla “patologia del primato”, è da esigenze legate a sicurezza ed egemonia che bisogna partire per una riflessione pragmatica e storicamente realistica dell’interventismo statunitense del 2001-2021, non di certo da questioni “astratte” come modello capitalistico ed “esportazione della democrazia”; concetti che rientrano in un quadro più ampio.
Se, infatti, per citare un classico della Guerra fredda, la risoluzione n. 68 del National Security Council del 1950, “a defeat anywhere is a defeat everywhere”, è fondamentale evidenziare come la presenza “imperiale” mondiale sia fondamentale per mantenere l’egemonia. La necessità di tutelare il proprio primato è figlia anche di un “complesso dell’appeasement” tipico della strategia statunitense successiva alla Seconda guerra mondiale, ben evidenziato nei lavori di studiosi come Logevall e Osgood.
Le sconfitte subite dagli Stati Uniti e dagli alleati europei in Afghanistan e Iraq hanno aperto a Washington una riflessione profonda sulla postura geostrategica del Paese e spianato la strada ad una contestazione radicale non solo del principio di “eccezionalismo” americano, ma, più in generale, della “funzione” stessa degli Usa nello scacchiere internazionale. Sotto molti aspetti, il giudizio che si sta dando ex post della “War on Terror” è lo stesso che fu dato sulla guerra del Vietnam.
Il binomio sangue-petrolio che per i critici dell’interventismo americano ha costituito e costituisce la cifra identificativa delle guerre in Medio Oriente e, in ultima istanza, della tutela dell’ordine internazionale liberale guidato da Washington e dai suoi alleati occidentali, apre ad una pericolosa ipotesi: che i nemici dell’Occidente possano avere una legittimazione in chiave “anticapitalista” ed “antimperialista” sempre. È il caso dell’ampio sostegno intellettuale di cui godono una formazione islamista come Hamas o la Russia di Putin impegnata nella guerra d’Ucraina.
Pur essendo critico nei confronti delle politiche di “regime change” adottate dagli Stati Uniti tra il 2001 ed il 2021, l’assistant professor in National Security Affairs dello U.S. Naval War College, Joseph Stieb, ha evidenziato come il dibattito molto serrato tra sostenitori moderati del “containment” e quelli radicali dei cambi di regime fosse figlio di un diverso approccio di natura tattica circa la postura statunitense nell’arena internazionale. Ed il fiume carsico di questo dibattito, che va dalla Prima guerra del Golfo nel 1990 alla ritirata della coalizione internazionale dall’Afghanistan nel 2021, è comunque ben altra cosa rispetto alle tesi dei “limitazionisti”.
Sia le teorie del “containment” che quelle del “regime change”, che hanno riferimenti abbastanza attuali nell’internazionalismo liberale obamiano e nel neoconservatorismo, partono dal presupposto secondo cui occorra trovare una prassi per gestire la presenza americana nel mondo e la tutela dell’ordine internazionale a guida occidentale. Ma si tratta di opzioni politiche, di scelte strategiche entrambe percorribili, che nulla hanno a che fare con il “moralismo”.
Come dimostrato da scrittori come Anand Gopal, Elliot Ackerman e Carter Malkasian, è, infatti, impossibile conculcare entro i limiti del “moralismo” e dell’ideologia l’esperienza politico-militare della “War on Terror”, così come qualsiasi guerra. Ecco perché, dunque, l’analisi di Beck risulta inficiata fin dall’inizio.
I “limitazionisti” chiedono la riduzione delle spese militari e il “disinteresse” statunitense (e degli alleati) per la politica dell’intervento o anche solo dell’attenzione politica in aree strategiche. Di fatto, questo non genererebbe pace, ma solo l’emersione di ambiziose spinte egemoniche da parte di potenze come Cina, Russia e Iran.