In assoluto uno dei più importanti imprenditori italiani, la politica per lui rappresentava invece una passione e, insieme, un dovere civile. Non è stato mai politico “per caso” o per egotismo o per cooptazione. Il ricordo di Pino Pisicchio
Quanti imprenditori hanno attraversato la politica dal lato della rappresentanza nella Repubblica italiana?Diciamo che non sono stati rari. Trascurando le autoreferenze che i parlamentari declinano a beneficio delle statistiche interne, ingrassando a dismisura gli autocompiacimenti, e talvolta esagerando con l’autoindulgenza, ricorderemmo tra i più grandi Berlusconi, Umberto Agnelli, Luciano Benetton. E Francesco Merloni. C’era una caratteristica che legava alcuni: l’idea che l’incarico politico fosse una medaglia da esibire nel palmares già denso di successi raccolti nel mondo economico.
Così fu anche per Gianni Agnelli, non eletto ma cooptato attraverso il laticlavio senatoriale honoris causa. Per queste personalità la politica politicante sarebbe stata cosa noiosa. Per altri – vedi Berlusconi – la spinta iniziale sarebbe stata l’interesse aziendale presto tramutato in gusto della competizione.
Ecco: per Merloni, in assoluto uno dei più importanti imprenditori italiani, la politica rappresentava invece una passione e, insieme, un dovere civile. Non è stato mai politico “per caso” o per egotismo o per cooptazione da parte del leader che ha bisogno di facce illustri da esibire al popolo, chi viene rieletto per sette legislature al parlamento, fa il ministro nei governi più difficili, quelli di Amato e Ciampi a cavallo di due Repubbliche e, seppure con quel suo approccio signorile imbevuto di understatement, non manca mai di rendere noto il suo punto di vista sulle istituzioni e l’economia, sulla finanza e la politica internazionale fino agli ultimi anni della sua lunga vita.
Francesco Merloni era un gentiluomo, di quelli che questo tempo chiassoso ed esibizionista non conosce più. Ingegnere-umanista con indole da mecenate, capitano, insieme al fratello Vittorio che fu presidente nazionale di Confindustria, di una grande impresa di famiglia – fondata dal padre Aristide – che ha accompagnato il boom economico del Paese e la crescita della piccola e media borghesia che portò l’Italia dall’umiliazione di una guerra disastrosa al settimo posto tra le potenze industriali del mondo, fu democristiano e marchigiano. Sono, entrambi i lemmi, allineati nel senso dell’ineluttabilità di tutti e due.
Raccontano, infatti, di due percorsi di vita scelti – perché per la propria territorialità “culturale” non è sufficiente lo “ius soli”- in base a valori saldissimi. La visione cattolico-democratica, incardinata nel principio fondante della solidarietà e rafforzato dal radicato senso della libertà, dell’intolleranza agli intolleranti (fascisti, comunisti, dittatori, egolatri…) e del rispetto della dignità umana, ne facevano un democristiano fuori dalle oleografie del politico baciapile, uso a vizi privati e a pubbliche virtù.
Il suo senso di appartenenza ad una comunità di fede e politica – sincero e profondamente sentito – non toglieva un solo capello alla sua laicità di pensiero. Al tempo stesso non cessò mai di mantenere il filo con la sua Fabriano, in origine vissuta anche come collegio elettorale e in seguito, una volta lasciata la politica militante, come spazio privilegiato di azione e di ricerca della Fondazione Aristide Merloni. Perché quel territorio, ricco di declivi collinari dolcissimi che ti portano dritti alla pittura rinascimentale, di città e borghi che la mano dei contemporanei non è riuscita a sfregiare, di spiagge e scenari marini sorprendenti; perché la sua gente, operosa, silenziosa, cordiale ma senza enfasi in sovrappiù, capace di raggiungere i mercati del mondo con i prodotti della sua creatività e del suo ingegno; quella regione e quella Fabriano cui doveva sempre far ritorno, erano come Francesco Merloni. Per indole.
Lucidissimo, sempre informato su tutto, lettura della rassegna in prima mattina, ti sorprendeva per la curiosità su tutto e per l’apertura al nuovo – per incidens: avemmo lunghe dialettiche sulla riduzione dei parlamentari, io contrario e lui, invece, favorevole – e lo sguardo al mondo orientale, dove, peraltro si recava fino a pochi anni fa, una volta al mese. Uno degli ultimi ricordi personali fu una telefonata in cui si parlava delle guerre dietro l’uscio di casa. “Se ci fosse davvero l’Europa – mi diceva – forse ci sarebbe anche un mediatore capace di aiutare il processo di pace. Ma l’Europa, purtroppo, non c’è”. Addio, Francesco, gentiluomo saggio e curioso del mondo.