Quando pensiamo alle infrastrutture e ai trasporti, di norma, pensiamo a qualcosa che più materiale non si può. Almeno era così fino a qualche tempo fa. Oggi, invece, le cose stanno in modo diverso. C’è stato un cambio di passo che è frutto di un cambio culturale e ciò è avvenuto (e avviene quotidianamente) in tutto il mondo. Prendiamo un ponte, ad esempio. Unisce due sponde che prima erano distanti se non, addirittura, completamente separate e indipendenti. Questa separazione ha prodotto spesso mondi diversi, culture diverse. Un ponte unisce mondi e culture separate. Questo concetto è ben presente nei Paesi a forte tasso di crescita, come la Cina. In Italia questo sentimento non è così diffuso: chi ha sentito parlare del ponte sullo Stretto di Messina come di un collegamento tra due culture? È solo un esempio, ma altri se ne potrebbero fare. La linea ad Alta velocità, ad esempio. Da quando è stata attivata la Tav tra Roma e Milano, realizzando la “metropolitana d’Italia”, come enfaticamente definita dall’ad di Ferrovie Mauro Moretti, si è parlato dell’utilità in termini di business tra i due principali poli italiani, ma di rado della sua funzione culturale. Eppure in chiave europea questa utilità è ben presente, anche nella mente degli italiani. È fuor di dubbio che la diffusione dei voli low-cost in tutta Europa abbia servito la causa dell’integrazione europea più di qualsiasi rappresentanza al Parlamento europeo.
Oggi può risultare più economico per un romano trascorrere un weekend a Varsavia piuttosto che a Bologna. E a volte andare a Ibiza, Baleari, Spagna, può risultare, oltre che più economico, più semplice rispetto a una spiaggia calabrese. Questo anche perché l’Italia negli ultimi 30 anni ha investito molto poco nelle infrastrutture (ad eccezione dell’Alta velocità nella parte centro-nord dello Stivale). Il ruolo degli investimenti in infrastrutture nell’Italia postbellica è sempre stato riconosciuto come determinante per l’uscita dalle macerie della crisi e la creazione del cosiddetto “boom economico” degli anni a cavallo tra il ‘50 e il ‘60. Spinta dalle necessità della ricostruzione, l’Italia in breve tempo si dotò di una efficiente rete autostradale, che verteva sull’asse nord-sud della Milano-Napoli. Si modernizzarono le ferrovie al punto che nel 1977 fummo i primi in Europa ad avere l’alta velocità, nel tratto tra Roma-Firenze. Il denaro immesso nel circuito, insomma, servì secondo una logica keynesiana, come leva economica, con benefici nel breve e medio termine.
Oggi la situazione del Paese è profondamente diversa. Non usciamo da un conflitto devastante, ma il mondo globalizzato impone alle nazioni velocità sempre maggiori e competizioni sempre più difficili da affrontare. E i conflitti spesso ce li creiamo da soli. Il caso della costruzione del tratto di Alta velocità ferroviaria in Val di Susa, parte del tratto Torino-Lione, è illuminante. La Francia ha terminato le gallerie di sua competenza, mentre da noi è dovuta intervenire la forza pubblica per rimuovere i blocchi creati dai comitati No Tav. Qui entriamo nella endemica difficoltà italiana di decidere e agire, a meno di non essere in emergenza. La lingua inglese sintetizza questa difficoltà a prendere decisioni con due acronimi: Nimby e Nimto, rispettivamente “non nel mio cortile” e “non durante il mio mandato”. I due acronimi rendono bene la ritrosia nel costruire infrastrutture, dai termovalorizzatori alle centrali, dai rigassificatori alle gallerie per l’alta velocità, ritrosia simbolo di un’Italia che non cresce ma galleggia, vivacchia.
L’assetto istituzionale italiano sembra strutturato apposta per seguire la tendenza del Nimto, con la frammentazione dei poteri (20 Regioni, 110 Province, 8100 Comuni), sovrapposizioni, diritti di veto diffusi, non chiarezza dei ruoli. Il tutto amplificato da una dissennata riforma del Titolo V della Costituzione votata a maggioranza nell’ultimo giorno della XIII legislatura, che ha introdotto competenze concorrenti praticamente in tutte le materie strategiche per lo sviluppo del Paese. Basti pensare che nel periodo 2002-2003, a ridosso della riforma del Titolo V, si è avuto un aumento del 500% del contenzioso Stato-Regioni presso la Corte Costituzionale. La riforma ha poi portato anche a un sovrapporsi di norme statali con quelle locali, con la moltiplicazione di leggi e regolamenti di sempre meno chiara interpretazione e applicazione. Uno studio del Club european house Ambrosetti ha evidenziato come la produzione di leggi in Italia sia superiore del 15% rispetto ai cugini francesi e sia quasi quadrupla rispetto al Regno Unito.
Si è tentato più volte di realizzare le opere pubbliche con processi inclusivi che servissero ad aumentare il consenso, un po’ sul modello della procedura di débat public francese, ma anche quando ciò si è verificato, come con l’Osservatorio sulla Torino-Lione, non è servito ad evitare durissimi scontri tra i contrari all’opera e lo Stato. Su questo un ruolo decisivo possono giocarlo i media, attraverso un’informazione completa, corretta e diffusa, che eviti inutili allarmismi, ma sia capace di generare un consenso consapevole.
Siamo quindi destinati all’immobilismo sia motorio sia istituzionale? Credo di no. L’Italia ha più volte dimostrato di saper reagire a situazioni difficili, di avere forza, tecnologia ed estro per innovare. L’Autostrada del Sole fu costruita negli anni ‘60 in soli otto anni, con soluzioni all’avanguardia. Fondamentale per la crescita, lo sviluppo delle infrastrutture e dell’Italia è una modifica della Costituzione. Come la Costituzione in vigore ha educato gli italiani ad amare la democrazia, ad uscire da una dittatura e da una guerra e porre le basi per essere uno dei Paesi più industrializzati del mondo, così una modifica agli strumenti di governo e di organizzazione dello Stato renderebbe l’Italia al passo con i tempi e con le armi giuste per affrontare le sfide del futuro. E ponendo le basi per una nuova cultura dell’innovazione e del merito, chissà: magari anche il ponte sullo Stretto verrà visto come un ponte tra culture.