Alla fine il futuro dell’Europa non dipenderà dal nuovo presidente degli Stati Uniti, né da una “sovranità europea” che è tutta da costruire, ma dalla capacità di adottare un approccio molto più pragmatico e flessibile a quello che deve essere uno sforzo straordinario per rialzarsi. L’analisi di Andrea Zanini, direttore relazioni esterne di Openeconomics
Il nome del nuovo presidente degli Stati Uniti interessa tutto il mondo. Ma a Bruxelles e nelle capitali europee l’attesa è caratterizzata da un pizzico di ansia in più. Ansia giustificata dalla posizione di vulnerabilità e declino dell’Unione europea nel contesto geopolitico globale, caratterizzato dalla competizione Usa-Cina, dalla frammentazione del commercio internazionale e dai conflitti ai suoi confini. Dal punto di vista economico, l’Europa sta affrontando una grave crisi di competitività, come evidenziato dal rapporto Draghi, rispetto ai concorrenti globali, in particolare gli Stati Uniti: quindici anni fa il Pil europeo era grossomodo uguale a quello degli Usa, oggi fatica ad arrivare ai 2/3 di quello americano.
La crisi energetica ha ulteriormente eroso la competitività industriale, con prezzi dell’energia significativamente più alti rispetto ai concorrenti globali e agli Usa (dove costa un terzo rispetto all’Europa). Secondo un’analisi di Confindustria, nel corso del 2023 le imprese energivore tedesche hanno pagato l’elettricità a un prezzo medio intorno ai 65 euro/MWh. Un prezzo paragonabile a quello che pagano le aziende in Francia e Spagna. Ma in Italia la situazione è peggiore, i costi energetici per imprese, con caratteristiche simili, sono stati invece nello stesso anno superiori ai 110 euro/MWh. Anche il ritardo tecnologico europeo è preoccupante, soprattutto nell’Intelligenza Artificiale e nel cloud computing, tecnologie dove si sta già giocano la partita che rimodellerà il mondo.
Per il vecchio continente i due candidati sono tutt’altro che equivalenti. In caso di vittoria di Donald Trump, le relazioni transatlantiche si potrebbero spingere verso un maggiore bilateralismo nei rapporti tra i singoli paesi europei e Washington, con possibili ripercussioni anche sulle relazioni con Mosca. Questo approccio potrebbe mettere a dura prova la sua capacità europea di agire sulla scena internazionale. D’altro canto l’approccio di trumpiano a una “Nato dormiente”, riducendo l’impegno americano potrebbe spingere gli europei ad assumersi maggiori responsabilità e accelerare gli sforzi per sviluppare capacità di difesa autonome. È uno scenario probabile? Non del tutto e non subito.
Non c’è una visione unitaria di politica estera, che è il presupposto di una difesa comune, e non esiste ancora una base industriale della difesa europea sufficientemente integrata. Inoltre, senza un debito comune e investimenti in deficit, notoriamente tabù per la Germania anche in tempi di crisi come oggi, non si paga la transizione energetica, né si costruisce una difesa comune. Trump, come annunciato, potrebbe intensificare le politiche protezionistiche, imponendo tariffe anche sulle importazioni dall’Europa. Questo metterebbe l’Ue in una posizione difficile, dovendo bilanciare la necessità di mantenere buoni rapporti con gli Usa e allo stesso tempo proteggere i propri interessi commerciali, inclusi quelli con la Cina.
E se invece vincesse Kamala Harris? Il riorientamento della politica estera americana potrebbe essere più graduale e meno drastico. Ma non bisogna farsi illusioni: la candidata democratica rappresenta comunque una generazione americana post-atlantica, con un focus crescente sull’Asia piuttosto che sull’Europa; anche lei spingerebbe per una maggiore condivisione degli oneri da parte degli alleati europei. L’Europa deve quindi prepararsi a una graduale riduzione della presenza americana e a un aumento delle proprie responsabilità in materia di sicurezza.
Sul fronte economico, Harris potrebbe essere più aperta alla cooperazione transatlantica, ma la competizione Usa-Cina continuerà e l’Europa dovrà necessariamente navigare con attenzione tra questi due giganti politici ed economici. Certo, la sfida tra Trump e Harris esalta il conflitto tra apertura e chiusura che ha sostituito quello tra destra e sinistra come punto di frattura politica, riguardo a globalizzazione, commercio, migrazioni e tecnologie digitali. Le società chiuse non possono sostenere uno sviluppo economico duraturo, tanto meno l’Europa che vive di import ed export e deve gestire efficacemente le interdipendenze: le relazioni commerciali con la Cina, l’approvvigionamento di materie prime dall’Africa, la riorganizzazione delle catene del valore che passano dall’Asia per il corridoio economico India-Medio Oriente-Europa (Imec), colpito dai recenti conflitti.
L’Unione europea esprime essenzialmente la forza e debolezza degli Stati nazionali, che restano il canale principale, anche a Bruxelles, della legittimità democratica. Cosa che spiega perché il Consiglio, nella triade istituzionale che governa l’Unione, sia comunque decisivo. Se è così, l’Unione di oggi è per forza debole, vista la crisi sia della Germania che della Francia. Alla fine il futuro dell’Europa non dipenderà dal nuovo presidente degli Stati Uniti, né da una “sovranità europea” che è tutta da costruire, ma dalla capacità di adottare un approccio molto più pragmatico e flessibile a quello che deve essere uno sforzo straordinario per rialzarsi, “oppure”, come dice Draghi, “sarà una lenta agonia”.