Secondo i resoconti di Pechino, i recenti incontri in Italia del numero 7 del politburo sono serviti a suggerire politiche anticorruzione e a incassare applausi per i progressi di Xi. È la versione del regime, che però sfrutta l’assenza di strategia italiana
“Non osano, non possono e non vogliono commettere reati legati alla corruzione” è il mantra del Partito comunista cinese. Le politiche anticorruzione a Pechino sono affidate a Li Xi, segretario della commissione centrale per l’ispezione disciplinare e numero sette del politburo, uno dei fedelissimi del leader Xi Jinping. “La Cina si impegna a condividere le conoscenze in materia di governance e a rafforzare la cooperazione anticorruzione con altri Paesi, tra cui l’Italia”, ha sottolineato Li nel corso dei suoi incontri in Italia la scorsa settimana secondo quanto riportato dai media statali cinesi.
Davvero l’Italia ha bisogno delle conoscenze del partito-Stato cinese in materia di anticorruzione, non fosse altro perché spesso sotto questa espressione si cela la repressione di chiunque possa mettere in ombra il Partito e il suo leader?
Li è stato la scorsa settimana a Roma, incontrando Ignazio La Russa, presidente del Senato e dunque seconda carica dello Stato, e Antonio Tajani, vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri. Ha anche partecipato ad alcuni incontri a Venezia in nome di Marco Polo, ormai simbolo più della Cina (e, in un certo senso, anche dello spionaggio cinese) che dell’Italia e di cui ricorrono i 700 anni dalla morte. È nel suo segno, come raccontato su queste pagine, che si svolgono tutti gli incontri bilaterali quest’anno dopo la decisione italiana di non rinnovare il memorandum d’intesa sulla Belt and Road Initiative, la cosiddetta Via della Seta, siglato dal governo gialloverde nel 2019. Comprese le missioni in Cina di Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, a luglio e di Sergio Mattarella, Presidente della Repubblica, della prossima settimana.
Secondo il resoconto cinese La Russa avrebbe “parlato della storica amicizia tra Italia e Cina, elogiando i risultati ottenuti dal Partito comunista cinese nel processo di costruzione del Partito e nella modernizzazione della Cina, affermando la disponibilità dell’Italia a rafforzare gli scambi tra organi legislativi e partiti politici”. Più asciutto il comunicato del Senato, che ha soltanto dato notizia dell’incontro.
Tajani, invece, secondo Pechino, avrebbe “ha sottolineato il ruolo della Cina come partner economico fondamentale, osservando che l’Italia spera di rafforzare gli scambi economici e commerciali con la Cina, promuovendo una relazione equilibrata e reciprocamente vantaggiosa. Ha ribadito l’impegno dell’Italia a favore di politiche economiche aperte e a lavorare attivamente per risolvere le frizioni commerciali tra Europa e Cina attraverso i negoziati. L’Italia cerca inoltre di collaborare con la Cina per promuovere la pace e la stabilità globale in mezzo alle sfide odierne”. La nota della Farnesina, però, sottolineava temi come “riequilibrio dell’interscambio commerciale” e ”attualità internazionale, con particolare riferimento al conflitto in Ucraina”. Su X, il ministro ha spiegato di aver “sottolineato la volontà del governo di lavorare con la Cina per avere parità di condizioni per le aziende” – questione che però è per lo più riconducibile ai rapporti tra Cina e Unione europea – e di confidare “sul ruolo di Pechino per una pace giusta in Ucraina così come in Medio Oriente e per la libertà dei traffici nel Mar Rosso”.
I resoconti sono diversi. Molto diversi. Pechino prova a sfruttare l’intenzione di Roma di non alimentare tensioni dopo la difficile decisione sulla Belt and Road Initiative. E così sembra voler spiegare come combattere la corruzione e provare a incassare presunti elogi della seconda carica dello Stato. Il tutto, sfruttando quella che sembra un’assenza di strategia italiana. Basti pensare alle tante parole sui rischi delle dipendenze strategiche e ai diversi diversi memorandum d’intesa tra aziende dei due Paesi su settori strategici come il green-tech dopo la sigla dell’accordo di cooperazione tra il ministero delle Imprese e del Made in Italy, guidato da Adolfo Urso, e il ministero cinese dell’Industria e delle tecnologie dell’informazione.
(Foto: Senato, X)