La kermesse pentastellata segna la riconferma di Conte e la scelta di collocarsi nel campo progressista, abbandonando il pragmatismo del passato. Il M5S si trasforma da movimento populista a partito organizzato, perdendo la sua diversità originaria e somigliando agli altri partiti, con una leadership oligarchica e una base parlamentare cooptata. Ora deve ritrovare un’identità politica e un nuovo popolo di riferimento
La kermesse pentastellata di questi giorni è quanto di più vicino all’idea platonica di congresso che questo tempo fluido e artificiale (come intelligenza, ovviamente) possa offrire e dunque bisogna accontentarsi. Tuttavia, checché ne dica l’avvocato Giuseppe Conte, proprio un congresso alla maniera antica non sarà: il congresso implica contendibilità della leadership e, ovviamente non se ne parla. Si enfatizza il confronto tra tesi, ma anche questo appare molto teorico, a meno che non si materializzi in carne e ossa, e non in forma di ologramma, Beppe Grillo, per lanciare l’urlo di guerra: sarebbe un numero da far gongolare i giornalisti di gossip e i retroscenisti, ma difficilmente cambierebbe una briciola nel destino già segnato della riconferma di Conte.
Che cosa ci si deve aspettare da questi giorni di fervida assemblea ri-costituente? Ci sono alcune novità, non c’è dubbio, che non vanno trascurate e altre evenienze che si prospettano come conferme e consolidamento di una leadership, ma anche l’annuncio di una nuova postura del Movimento 5 Stelle.
Partiamo dalla novità: il leader pugliese ha detto a chiare lettere che il destino dei 5 Stelle è nel campo dei progressisti. Non è una cosa banale, detta da chi è assurto al rango di governo condividendo la leadership con Matteo Salvini, manifesto vivente del sovranismo e della reazione, avallandone necessariamente la politica antimigratoria con tutte le sue leggi securitarie che oggi portano il succitato davanti ai tribunali. Affermare, allora, che l’area della sinistra resterà l’hic manebimus optime per il suo partito significa due cose: abbandonare quella furbizia pragmatista che ha fatto da bandiera al movimento nella rincorsa di un’utopia dell’autosufficienza impossibile prima e poi, negli anni delle vacche obese, il bottino elettorale di dimensioni democristiane.
Dal punto di vista strategico significa rivoluzione copernicana. Guardandolo però con le lenti del necessario realismo, potrebbe significare anche presa d’atto dell’irreversibile dimagrimento delle vacche elettorali, quasi a livello di anoressia che urla tutto il suo dolore elezione dopo elezione. La nuova postura del Movimento sembrerebbe muoversi dal livello gassoso a quello di una comunità che si organizza in forma di partito, beninteso, così come usa oggi, non certamente guardando al modello dei partiti di massa della Prima Repubblica.
E allora questa creatura multiforme e sfuggente, poggiata sul tapis roulant dei social, ideologicamente ispirato dal misticismo digitale di Gianroberto Casaleggio e dal situazionismo rimasticato da Grillo, questo modello imitato ma non eguagliato nel mondo liberal-democratico di “partito digitale” che ha messo in corpo buona parte del populismo circolante nel paese, restituendolo in forma di classe parlamentare, questo movimento dei “grillini”, così come venivano chiamati, adesso non c’è più.
È morto, ha perso la sua diversità e anche il suo popolo, oggi che il populismo si è fatto liofilizzato e ogni formazione politica, di destra e di sinistra, l’ha inalato profondamente facendone cosa sua. Questa è la difficoltà che oggi vive il Movimento: in fondo il situazionismo dissacrante e anarcoide del comico genovese e il messianismo cibernetico di Casaleggio erano sufficientemente lontani dai politici ordinari per rivendicare una loro credibilità.
Avanti a tutto c’era la personale estraneità ai ruoli nelle assemblee elettive e di governo. Con Conte quella diversità è finita: il movimento non è diverso da ogni altro soggetto politico offerto dal mercato, con un leader attorno a cui si forma una corona di oligarchi, in una chiave di chiusura agevolata dalle leggi elettorali a liste bloccate, cioè fatte per mandare ai vertici del paese solo i graditi da parte di chi comanda.
Morale della favola: siamo di fronte a un altro M5S, assai smagrito, sorretto da una classe dirigente che è sostanzialmente quella parlamentare, dunque cooptata e mai messa alla prova del rapporto con il corpo elettorale, un movimento che ha bisogno di ritrovare un proprio codice, una propria politica, un proprio popolo. Dunque, le stelle che usciamo a riveder non sono più quelle Cinque che abbiamo conosciuto, sono altre. Che ancora non conosciamo.