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Bartali, il cuore grande di un grande campione

Grazie all’autorizzazione dell’autore, pubblichiamo il commento di Federico Guiglia uscito sull’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Brescia Oggi.

Quel Gino lo chiamavano “Ginettaccio”, e sempre l’hanno associato al rivale Fausto Coppi. Come se la sua storia di campione nel ciclismo fosse una storia “condivisa per sempre”: Bartali e Coppi, impossibile per l’uno fare a meno dell’altro.

Ma oggi sappiamo che il vincitore di tre Giri d’Italia e due Tour de France (una delle cui vittorie, nel 1948, contribuì a rasserenare il clima drammatico in Italia per l’attentato a Palmiro Togliatti), quel “ciclista su strada” che divenne leggenda, condivideva con gli altri il senso della vita quanto quello della sfida nello sport. Ginettaccio è stato dichiarato “Giusto tra le nazioni” nel memoriale israeliano Yad Vashem dedicato alle vittime dell’Olocausto, per aver aiutato ottocento ebrei negli anni 1943-1944. Grazie alle sue pedalate ottocento persone furono salvate dalle deportazioni durante l’occupazione tedesca in Italia. Tra un allenamento e l’altro, tra una salita e l’altra, Bartali portava documenti falsi nella canna della bicicletta, aiutando in concreto le famiglie in pericolo a nascondersi. E lui stesso ne nascose una in casa per mesi.

Ma la bella notizia non è soltanto l’aver riscoperto, nell’epoca degli Schettino che scaricano sugli altri, sui timonieri, le loro responsabilità, che c’è sempre un’altra e molto diversa Italia. Una nazione di gente non di fama, ma di valore, gente forte e umile pronta a fare la cosa giusta a costo della propria vita. La vera notizia è che fanno la cosa giusta senza sbandierarlo, senza annunciarlo con l’ufficio stampa, senza sottolinearlo quale nota di merito nel curriculum. Alla Gino Bartali. “Chi fa il bene, lo fa in silenzio”, insegnava e raccomandava questo eroe su due ruote ai suoi familiari. Riproponendo, così, quegli esempi piccoli ma grandiosi che fanno dell’Italia un Paese straordinario, se soltanto si va a scavare nella cronaca quotidiana e spesso di provincia, dove l’essenza viene prima dell’apparenza, e il dovere anticipa i diritti, e la sobrietà dei comportamenti è di regola. Perché “fare del bene in silenzio” è uno stile di vita che non richiede telecamere per essere esibito. Nel fare ciò che ha fatto, Bartali non si sarà mai sentito più bravo di quanti si sarebbero e si sono comportati allo stesso modo nelle stesse e pur drammatiche circostanze. È questa “normalità” che rende eccezionale l’evento non così lontano nel tempo. Il tempo non cancella il bene: lo rafforza. Lo fa diventare contemporaneo, come se ancora oggi salisse, con Ginettaccio, sul Passo dello Stelvio e nel nostro cuore.

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