Le dinamiche in corso in Siria evidenziano ancora una volta quanto la “profondità strategica” turca sia, invero, uno strumento di accrescimento della propria forza, tanto in atto quanto in potenza
In contesti particolarmente fluidi, con equilibri che cambiano rapidamente e con le conseguenti difficoltà e/o azioni di disimpegno di attori centrali, anche una media potenza può proiettare non solo le ambizioni ma anche la forza di una grande potenza in una specifica area geografica.
Questo è il caso della Turchia negli ultimi eventi siriani, che hanno portato alla caduta di Bashar al-Assad, o, per tornare a qualche anno fa, dell’azione militare di Ankara in Libia a favore di Tripoli e contro Haftar.
L’impegno politico e militare diretto della Turchia nella Guerra civile siriana al fianco dei ribelli islamici “moderati” dell’Esercito Nazionale Siriano (Sna) ed in funzione anti-curda è stato sintomo della trasformazione del pensiero della Stratejik Derinlik (profondità strategica) tendente ad imboccare la strada del revisionismo rivoluzionario su scala regionale, dopo essere nato quale dottrina di stampo “incrementale”.
Quando nell’ottobre 2019 le truppe turche varcarono il confine con la Siria, installandosi nel nord del Paese, andando a combattere sia le milizie curde che le forze governative di Assad, Ankara puntò tutto su un “obiettivo regionale”, superando la “pazienza strategica” che della Stratejik Derinlik era un pilastro, in favore della ricerca spasmodica del massimo profitto nel breve-medio termine.
Posto che la vittoria militare degli “jihadisti politici” dell’HTS sugli assadisti non equivale alla chiusura definitiva del conflitto siriano e che, per certi versi, ne ha acuito l’aspetto “regionale” e interstatale, con l’avanzata degli israeliani nel Golan, il ritiro dei russi da Tartus e il rinnovato problema di sicurezza alla frontiera siro-irachena, si conferma la volontà della Turchia di voler “dare le carte” sulla questione.
La volontà di farsi garante della sicurezza siriana – con una Opa territoriale lanciata sulla fascia settentrionale del Paese – e i rapporti intricati con gli Stati Uniti e le monarchie del Golfo per quanto concerne islamismo militante e formazioni curde evidenziano proprio questo aspetto.
Secondo il presidente della Fondazione Med-Or, Marco Minniti, Ankara ha sostenuto l’avanzata delle forze dell’HTS per “allargare la zona cuscinetto che la divide dai curdi dell’Ypg e permettere il ritorno dei quasi quattro milioni di profughi siriani che sono ospitati in Turchia”.
Le dinamiche in corso in Siria evidenziano ancora una volta, qualora ce ne fosse bisogno, quanto la “profondità strategica” turca sia, invero, uno strumento di accrescimento della propria forza, tanto in atto quanto in potenza. E nella concezione turca, nello specifico di Erdogan e dei circoli a lui più vicini, non per forza “neo-ottomani” strictu sensu, della politica estera, i fattori di stampo economico (che molti analisti occidentali individuano quali punti deboli di Ankara) non vengono considerati limitanti nel processo di decision making di stampo revisionista-regionale.