I grandi investimenti invocati da Draghi a Parigi sono una risposta urgente e necessaria, benché da soli non bastino ad affrontare le sfide del futuro. Il commento di Pasquale Lucio Scandizzo
Nel suo intervento al Simposio annuale del Cepr, un influente centro di ricerca di politica economica, Mario Draghi ha ribadito le indicazioni contenute nel suo rapporto sul futuro dell’Unione europea, indicando tre direzioni principali per l’azione coordinata degli Stati membri. La prima di queste azioni è la realizzazione del mercato unico europeo e del mercato dei capitali, fondamenti istituzionali indispensabili per la crescita della produttività. La seconda è il rilancio degli investimenti a livello europeo, che avrebbe le maggiori probabilità di successo attraverso l’emissione di debito comune.
Questa politica creerebbe uno spazio fiscale aggiuntivo, ossia una possibilità di spesa per investimenti, che è ora limitata dall’indebitamento dei singoli paesi, e permetterebbe uno sforzo congiunto per la creazione di capitale europeo: grandi infrastrutture, impianti industriali, ma anche capitale umano e tecnologia. Il debito europeo contribuirebbe inoltre ad ampliare l’offerta di safe assets internazionali e darebbe un impulso al mercato internazionale dei capitali, oggi dominato dal dollaro, migliorandone la diversificazione e riducendone i rischi.
La terza azione, più difficile da definire, e non esplicitamente descritta nell’intervento di Draghi, consiste in una serie di misure per cambiare la struttura della economia europea, da tempo basata sul surplus commerciale come strumento di alimentazione della domanda dei prodotti industriali e motore della crescita economica. Questa azione è più controversa, anche perché la capacità di esportare i propri prodotti in tutto il mondo è da sempre motivo di compiacimento da parte dei settori e delle imprese che riescono ad affermarsi contro la concorrenza internazionale e quindi anche motivo di orgoglio nazionale. A prima vista, il modello di crescita trainata dalle esportazioni sembra anche una affermazione di quel vantaggio competitivo più volte invocato come stella polare delle raccomandazioni dello stesso rapporto Draghi.
Sebbene il dibattito su questo tema sia ancora aperto, e il concetto di vantaggio competitivo esso stesso non privo di ambiguità, è importante riconoscere che appare sempre meno sostenibile un modello di divisione internazionale del lavoro in cui alcuni paesi accumulano costantemente surplus commerciali mentre altri registrano deficit permanenti. I surplus dei paesi eccedentari si traducono infatti in un aumento progressivo di attività finanziarie, ovvero investimenti, nei paesi in deficit. Questo potrebbe sembrare vantaggioso, ma cela effetti negativi, in quanto riduce i risparmi disponibili per gli investimenti interni nei paesi esportatori netti.
La conseguenza è che a un incremento delle esportazioni nette tende a corrispondere una riduzione degli investimenti interni, e questa a sua volta si riverbera su una crescente obsolescenza dello stock di capitale produttivo, e con una perdita progressiva di quella stessa competitività che sembrava conquistata con il successo delle esportazioni. Vi sono inoltre altri effetti negativi. Per contrastare la erosione dei propri vantaggi competitivi alcuni paesi della Unione Europea, in assenza di flessibilità dei cambi interni, hanno mostrato la tendenza ad adottare politiche di svalutazione competitiva, basate sulla riduzione dei costi del lavoro.
A questo riguardo, la situazione è piuttosto complessa, con differenze marcate anche se progressivamente in riduzione, tra i paesi membri. Tre tendenze distinte ma coesistenti sono la repressione, la compressione e la stagnazione salariale. La repressione salariale si verifica quando i salari vengono mantenuti artificialmente bassi rispetto alla crescita della produttività. La compressione salariale consiste invece nella riduzione delle differenze tra i salari di diverse categorie di lavoratori, ma anche degli incrementi salariali nelle progressioni di carriera all’interno delle stesse categorie.
La stagnazione salariale si verifica infine quando i salari rimangono fermi o crescono a un ritmo molto lento per un periodo prolungato a causa di fenomeni diversi, quali, in particolare la parallela stagnazione della produttività. Queste tre tendenze possono essere aggravate da condizioni particolari del mercato del lavoro europeo, ma alimentano anche la competitività internazionale di molte imprese, che basano il loro successo nelle esportazioni su un più alto rapporto tra qualità e costo del lavoro.
Infine, bassi salari combinati con un modello di crescita trainato dalle esportazioni implicano una minore domanda interna, con una minore capacità di generare effetti moltiplicativi attraverso il circuito tra consumi e redditi. Minori consumi si accompagnano a maggiori risparmi, ma questi a loro volta non si traducono in maggiori investimenti interni, ma sono utilizzati per finanziare i deficit dei paesi importatori.
Queste considerazioni si collocano all’interno di una crisi strutturale della economia europea, in cui sembrano venire al pettine i nodi della insostenibilità del modello di crescita tradizionale, e dei decenni di bassi investimenti, attraverso una subitanea e accelerata obsolescenza del capitale produttivo pubblico e privato. Paradossalmente questa obsolescenza è accelerata dalle scelte politiche sulla transizione verde e digitale, e dalle sfide tecnologiche dell’automazione e dell’Intelligenza Artificiale. I grandi investimenti invocati da Draghi sono quindi una risposta urgente e necessaria, benché da soli non bastino ad affrontare le sfide del futuro.