Durante l’audizione di conferma come segretario di Stato, Rubio ha preferito riferirsi al Pcc, per mettere distanza per la leadership di Pechino e il popolo. Una scelta che irrita Xi. Il presidente della Jamestown Foundation spiega perché
“Abbiamo accolto il Partito comunista cinese nell’ordine globale. E questi ha potuto far tesoro di tutti i suoi benefici. Ma ha ignorato tutti i suoi obblighi e le sue responsabilità. In compenso, ha mentito, ingannato, hackerato e rubato per raggiungere lo status di superpotenza globale, a nostre spese”. Con queste parole Marco Rubio si è presentato mercoledì in Senato per l’audizione di conferma nel ruolo di prossimo segretario di Stato americano.
Ha parlato tanto di Cina, trovando sponda anche tra i democratici, a conferma del fatto che il Congresso tutto considera la competizione con Pechino la priorità strategica per Washington. Ha fatto riferimento a quello che ha definito un “asse” tra Cina, Russia, Corea del Nord e Iran, potenze che “seminano caos e instabilità, si allineano con i gruppi terroristici radicali e li finanziano, poi si nascondono dietro il loro potere di veto alle Nazioni Unite e la minaccia di una guerra nucleare”. Ha difeso le alleanze degli Stati Uniti, compresa la Nato, spesso oggetto di critiche da parte del presidente eletto Donald Trump, e il patto Aukus con Regno Unito e Australia firmato dal presidente uscente Joe Biden.
Ma pressoché sempre, quando ha parlato di Cina, l’ha fatto con riferimento al “Partito comunista cinese”. Si tratta di un punto a cui Pechino presta particolare attenzione. Per esempio, nel colloquio telefonico tra il leader Xi Jinping e il presidente Biden di novembre Pechino aveva chiesto a Washington di prestare attenzione al “percorso e sistema della Cina”, evitando di fare distinzioni tra il Partito comunista cinese e la Cina o il suo popolo. Spesso Washington tende a distinguere tra il Partito e il popolo, anche per evitare quelle accuse di razzismo che con grande facilità Pechino aveva mosso alla prima amministrazione Trump.
Il Partito comunista cinese “si è sempre considerato una potenza globale”, spiega Peter Mattis, presidente della Jamestown Foundation. “Oggi questi obiettivi sono riassunti sotto il concetto di ‘Grande ringiovanimento della nazione cinese’, che prevede un programma completo di modernizzazione e costruzione di una potenza nazionale globale per rimodellare le relazioni internazionali a livello politico, diplomatico, economico e tecnologico. A tal fine, Pechino ha proposto un ‘Nuovo tipo di relazioni internazionali’ e una ‘Comunità dal destino comune per l’umanità”.
Si tratta di una delle tre ragioni per le quali il Partito comunista cinese “teorizza, organizza e investe per influenzare il processo decisionale” delle democrazie occidentali, sostiene Mattis. La seconda: “Il Partito definisce la sicurezza come ‘assenza di minacce alla capacità di governare’ la Cina, secondo quanto stabilito dalla Legge sulla sicurezza nazionale. La maggior parte dei Paesi definisce la sicurezza come la gestione dei rischi e la resilienza di fronte alle catastrofi. La capacità del Partito di governare si basa anche sull’ostacolare le idee liberali, fondamentali per una società democratica”, continua l’esperto. “Tra queste idee, identificate come minacce dal Partito, vi sono lo stato di diritto, la libertà di stampa e la società civile. Il Partito deve impedire che tali idee e le relative minacce penetrino in Cina per mantenere il suo potere”: La terza: “Negli anni Duemila, l’Esercito popolare di liberazione ha formulato due valutazioni che hanno dato priorità all’influenza. La prima era che la deterrenza nucleare tra grandi potenze rendeva improbabile una guerra. La seconda era che i confini tra pace e guerra, tra interno e internazionale, si stavano sfumando. La capacità di influenzare gli altri è diventata quindi una priorità strategica”.
Ecco perché le scelte lessicali, specie in un contesto teso in cui l’incidente è dietro l’angolo, sono cruciali.
Ma rimane da capire quale sarà l’approccio verso la Cina dell’amministrazione Trump. Ci sono almeno tre correnti: i falchi, come il segretario designato Rubio, che spingeranno per una linea dura; coloro che desiderano continuare a fare affari con Pechino mitigando i rischi; e, infine, chi è semplicemente interessato a mantenere i legami economici senza restrizioni significative. Una domanda che, come evidenziato su queste pagine, si collega a un’altra: che ruolo avrà Elon Musk, patron di Tesla e SpaceX, chiamato da Trump a guidare il Dipartimento per l’efficenza del governo? Tesla, la principale fonte della sua ricchezza, dipende in modo significativo dalla Cina, sia per la produzione sia per il mercato: Strategy Risks colloca l’azienda al quarto posto nella classifica delle 250 principali aziende statunitensi con la maggiore esposizione economica alla Cina, subito dopo Apple. La voce di Musk, che come ha ricordato il Wall Street Journal ha più volte pronunciato parole positive verso la leadership del Partito comunista cinese, sarà influente nell’amministrazione. Anche grazie alla sua vicinanza al presidente (avrà un ufficio nel complesso della Casa Bianca), il magnate potrebbe spingere per un approccio più morbido nei confronti di Pechino.