Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo il commento del manager e scrittore Riccardo Ruggeri uscito sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi.
È curioso, due grandi leader, Sergio Marchionne e Matteo Renzi, così simili come profilo, come ambizioni, come pregi e difetti, a loro insaputa stanno vivendo in simbiosi un momento topico della loro vita: devono lottare contro il tempo, perché nel loro caso il tempo gioca contro di loro.
Marchionne non è riuscito a trovare un accordo sul valore da assegnare a Chrysler, e acquisire così il 41,5% in carico al fondo Veba del sindacato Uaw, raggiungendo il 100% del pacchetto. La sostituzione nel Board Chrysler, in quota Uaw, dell’ilare ex governatore del Michigan Blanchard, che, si diceva, subisse il suo fascino manageriale, con un freddo negoziatore, l’esperto di Wall Street, Perkins, ha bloccato la marcia trionfale Fusione-Ipo programmata dal Lingotto. Senza accordo, Marchionne non può gestire la liquidità di Chrysler, non può procedere alla fusione. Quando ha capito che il tempo giocava a suo sfavore, che il topo era diventato lui, e Veba il gatto, pare abbia chiesto a Ron Bloom, lo «zar» amico di Barack Obama, di rappresentarlo nel negoziato: mossa non da lui.
Pokerista fino in fondo, Marchionne non ha accettato la valutazione di quasi 5 miliardi fatta da Veba per il suo pacchetto, il che significava dare a Chrysler un valore di 12, e allora è diventata obbligatoria la soluzione peggiore: in base agli accordi, era costretto a fare l’Ipo della sola Chrysler, prima della fusione con Fiat.
Col rischio, mortale, che, nel capitale, entrino soci forti e spregiudicati (a Wall Street, questa è una fauna che non manca), sostitutivi di Veba, che potrebbero dettare le loro condizioni al momento della fusione con Fiat Auto, o farsi sontuosamente liquidare per uscire .
Arriverebbero allora stormi di analisti di costoro, autentiche cavallette, individui occhiuti che vorranno conoscere di Fiat Auto «tutto» e il primo atto sarà proprio verificare se e come erano stati raggiunti gli obiettivi dei precedenti otto piani (!) della gestione di Marchionne, Fabbrica Italia compresa, per evidenziare la sua credibilità manageriale.
E ancora, gli investimenti su innovazione, prodotti, reti di vendita, tecnologie, conoscere che ne sarà degli stabilimenti italiani in esubero, dei loro costi di chiusura o di ristrutturazione, se la difesa delle quote in Brasile, nel momento in cui Vw sta colà investendo 3 miliardi di dollari, avviene con nuovi prodotti o con sconti sui prezzi, e così via. Il tutto per conoscere quanto vale la sola Fiat auto, che è il vero segreto di questo «business case», carta che Marchionne ha tenuto sempre coperta, facendo filtrare che fosse un jolly. Da esso dipende il peso degli Agnelli nella governance futura, il valore della cassaforte Exor, il destino suo e della Famiglia.
Personalmente, non correrei rischi, se l’Azionista avesse i quattrini, comprerei il pacchetto Veba a qualsiasi condizione, ma mai farei avvicinare analisti-cavallette al tabernacolo del Lingotto. La variabile tempo è per lui quella più strategica, e potrebbe essere vincente o drammatica, a seconda dei casi. Spero che ora si capisca come fosse irrilevante il chiacchiericcio italico di questi anni, l’appartenenza o meno a Confindustria, gli infiniti dibattiti sulla produttività in assenza del lavoro, le paturnie di Landini, i balletti col governo.
Matteo Renzi, per colpa della nomenclatura del Pd, non ha, come diceva il professor Keating nel film «L’attimo fuggente», «colto la rosa quando era il momento». Da allora, lui è cambiato profondamente. Estremizzando, gli è rimasto solo l’accento toscano e il sorriso, si è imbolsito, anche perché, in effetti, non ha più l’allure di Sindaco di Firenze, sta facendo un mestiere non suo: il candidato senza elezioni.
Ora lo stanno intrappolando, offrendogli una carica finta o mitica a seconda dei punti di vista, segretario del partito, in presumibile assenza di un partito. Il Pd ormai è come la Siria, decine di tribù con i loro capi clan, di diverse sette religiose, in guerra fra loro. Per governarle ci vorrebbe un Assad. Come può un giovane virgulto, diciamolo, un peso welter, gestire un mondo tribale così complesso? Però lo deve fare, altrimenti esce di scena. Lui ha sì l’aiuto potente, seppur notoriamente peloso, di giornali potenti, ma il suo avversario, Enrico Letta, ha la premiership del Paese (come ha dimostrato il sondaggio di Lorien Consulting, pubblicato ieri in esclusiva da ItaliaOggi) ed è più simile al modello oggi vincente in Europa, quello dei «culi di pietra» alla Merkel, non come Renzi, un blairiano, sempre in piedi, agitato, irrequieto.
I destini di Marchionne e di Renzi sono legati. Il loro comune modello di riferimento e mentore, Obama, è in crisi irreversibile, non è neppure più in grado di nominare Summers alla Fed Così il giudice del Delaware piuttosto di scegliere fra Marchionne (con ombra di Obama sullo sfondo) e Veba (potente sindacato Uaw in crescita, grazie anche alla Vw che si sta acquartierando nel Tennessee, coinvolgendolo) preferisce spostare la sentenza, danneggiando la straniera Fiat: tutto il mondo è paese. Di qui le recenti scivolate verbali di entrambi.
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