“La cultura dell’innovazione è più consolidata oltreoceano. La collaborazione tra Accademia e Industria è più forte. Di conseguenza, anche gli investimenti in ricerca e sviluppo sono più significativi”. Intervista di Alessia Amore, avvocato e bioeticista, allo scienziato Ennio Tasciotti, biologo molecolare, professore ordinario di Tecnologie avanzate per il benessere e l’invecchiamento, fondatore e responsabile del Laboratorio Human Longevity Program presso l’Irccs San Raffaele di Roma
Come si fa ricerca scientifica oltreoceano? Il passaggio obbligato ad un modello di medicina preventiva e proattiva. Lo sviluppo delle nuove tecnologie mediche e sanitarie. Il futuro è già presente. Ne abbiamo parlato con lo scienziato Ennio Tasciotti, biologo molecolare, professore ordinario di Tecnologie avanzate per il benessere e l’invecchiamento, fondatore e responsabile del Laboratorio Human Longevity Program presso l’Irccs San Raffaele di Roma.
Lei è stato per molti anni in America e ha diretto il Centro di Medicina Rigenerativa Muscolo Scheletrica e quello di Medicina Biomimetica presso il Methodist Research Institute di Houston. Nel campo delle biotecnologie cosa possono imparare l’Europa, in particolare l’Italia, dagli Usa, secondo lei? Oltreoceano hanno laboratori più avanzati, una maggiore apertura mentale e meno limiti per compiere studi clinici?
La lezione più importante che ho imparato a Houston è il fatto che la ricerca traslazionale, quella che ha come obiettivo lo sviluppo di prodotti e soluzioni terapeutiche per i pazienti, funziona molto meglio lì perché coinvolge in maniera più diretta chirurghi e medici. Sono loro più dei ricercatori a sapere quali sono le tecnologie che servono, i bisogni su cui concentrarsi. Nel mio centro di ricerca lavoravo fianco a fianco ai medici, una cosa che non in tutte le Università è possibile perché non tutte le Università hanno un centro di ricerca clinico o un ospedale all’interno. Un chimico che lavora in un laboratorio senza la vicinanza di medici, che non ha mai visto un paziente, è molto lontano dal capire quali sono le esigenze reali. Quindi succede spesso che questi scienziati sviluppano un “nuovo materiale” con delle proprietà interessanti, lo brevettano ma non avendo ancora un utilizzo preciso, si sforzano di trovargli un’applicazione sulla base di quello che loro pensano sia più utile. Molte volte, però, non sanno davvero cosa serve ad un medico. Se si fa il ragionamento al contrario avviene l’opposto. Io invitavo i medici il venerdì, una giornata più leggera per loro. Ricordo che si chiamavano ironicamente i “Santa Klaus Friday” perché chiedevo loro di scrivere una sorta di lettera a Babbo Natale nella quale scrivevano quello che avrebbero voluto trovare in studio o in camera operatoria per risolvere i loro problemi. Così si accelera moltissimo il processo di innovazione. Il clinico ti accompagna durante il percorso, ti guida nella scelta degli esperimenti migliori, ti affianca nell’interpretazione dei dati clinici, aiutandoti a capire il punto di vista dell’utilizzatore finale. Parliamo di un approccio alla ricerca scientifica proprio diverso.
Per quanto riguarda gli investimenti?
La cultura dell’innovazione è più consolidata oltreoceano. La collaborazione tra Accademia e Industria è più forte. Di conseguenza, anche gli investimenti in ricerca e sviluppo sono più significativi. A titolo esemplificativo, tra il 2021/22, le Biotech Usa hanno ricevuto 60 miliardi di dollari di finanziamenti. In tutta Europa, nello stesso periodo, 10 miliardi. Altro segno distintivo è che in America si sono creati dei veri e propri Poli di innovazione super strutturati. La Bay Area di San Francisco e la Bay Area di Boston e quindi Harvard, MIT, Brigham Women Hospital, hanno dato vita ad un ecosistema che si autoalimenta a partire da una base di ricerca eccellente, da strutture ospedaliere all’avanguardia e da un ingente capitale di rischio. Si sono creati Venture Capital, Private equity, fondi di investimento che monitorano quello che succede nei centri di ricerca e supportano lo sviluppo di nuove tecnologie. In Europa e soprattutto in Italia, invece, la situazione è frammentata. Ci sono delle piccole Unità nei Centri di eccellenza, dei coraggiosi a livello di singole persone che hanno avuto una visione lungimirante, mettendoci l’impegno personale e i loro contatti, per sviluppare dei piccoli ecosistemi. Penso alla Regione Friuli Venezia Giulia con la quale collaboro per le attività legate al Cluster Scienze della Vita, proprio per creare questa commistione tra Università, Centri di ricerca territoriali, ospedali, industria locale e fondi di ricerca. L’obiettivo è facilitare la valorizzazione delle scoperte accademiche e cliniche attraverso incentivi istituzionali, supporto amministrativo e mentorship su temi tecnico/economici.
Quali sono le aree di ricerca più promettenti negli Stati Uniti e in Europa o quelle nelle quali si sta investendo di più?
Il mondo della scienza e della medicina è un mondo globale, quindi i bisogni non differiscono molto soprattutto in Paesi sviluppati come l’Europa e gli Stati Uniti. Tutti si rendono conto che è necessario investire in una trasformazione del modello sanitario attuale. Per anni ci siamo affidati soprattutto alla medicina reattiva, si va dal medico solo quando si sta male. Bisogna, invece, andare verso un modello di medicina preventiva e proattiva. È prima di stare male che si deve fare quanto più possibile per evitare di ammalarsi e per riprendere in mano il controllo della propria salute. Sono appena entrato nello Scientific Advisory Board di un partenariato europeo del ministero della Salute finanziato da Horizon Europe che si chiama proprio “Trasforming Healthcare Systems”. L’Europa si è ormai resa conto che vanno cambiati i sistemi sanitari alla luce delle sfide demografiche che modificheranno le esigenze di cura e di assistenza sanitaria delle popolazioni.
Dal suo osservatorio privilegiato ci porti con lei nel futuro. Quali saranno le aree tematiche su cui state puntando strategicamente la vostra attenzione?
Le tecnologie mediche e sanitarie sono in evoluzione rapidissima anche grazie alla spinta dell’intelligenza artificiale. L’Europa sta investendo circa 500 milioni di euro in questo settore. Dalla gestione dei dati alla robotica, sfide chiave legate all’ottimizzazione nell’amministrazione delle risorse, al miglioramento dell’interpretazione dei dati sanitari e all’incremento della capacità predittiva dello sviluppo di malattie. Un altro ambito è la scienza dei materiali. Sono 250 i milioni di euro che si stanno investendo su questi materiali per future applicazioni biomediche. E non parliamo solo di materiali biologici, ma di materiali ibridi dotati di nano elettronica, grafene o di altri materiali compositi più complessi che riescono a rispondere a diverse esigenze, terapeutiche o curative. E poi c’è la parte di sensoristica che grazie alla nano elettronica permetterà di seguire in real time diversi processi fisiologici e patologici.
Ho sentito di laboratori in grado di preparare farmaci chemioterapici specifici e personalizzati. Possiamo sperare nell’avanzamento delle tecnologie che porterà alla scoperta di molecole sempre più promettenti per curare patologie attualmente incurabili?
Oggi ci curiamo soprattutto con piccole molecole, ma ci stiamo spostando sempre di più sul farmaco biologico, andando oltre gli anticorpi monoclonali. L’Europa sta puntando su terapie cellulari e geniche sia per applicazioni di medicina generativa che nei trattamenti oncologici. Questo ci permette di avere un approccio alla malattia molto più ampio perché la cellula ha un modo di gestire la malattia più complesso e di quello del singolo farmaco. Nel caso del tumore, addirittura, la cellula è in grado di creare una memoria immunitaria per cui se quello stesso tumore riprende il sopravvento, il sistema immunitario lo riconosce e si difende. Al secondo livello parliamo poi di terapie geniche, abbandonate per anni per problemi legati alla sicurezza, ma che stanno tornando alla ribalta soprattutto per la cura di malattie genetiche ereditarie. Noi italiani siamo stati tra i primi, con la terapia genica sviluppata per il trattamento delle immunodeficienze dalla Fondazione Telethon, grazie al lavoro dei professori Bordignon e Naldini.
In America si è occupato di studiare e sviluppare nanomateriali e nanoparticelle per il rilascio mirato di farmaci contro il tumore e anche per la rigenerazione di muscoli e ossa. Le sue scoperte hanno portato all’assegnazione di più di 15 brevetti. Alla luce del suo impegno che suggerimento si sente di dare all’Italia nel settore biotech per essere un Paese più attrattivo?
Sono stato in America per imparare e sono tornato per insegnare quello che ho appreso sul sistema integrato della ricerca. Qui, un po’ per colpa della burocrazia italiana, un po’ per la over regolamentazione europea, si rende poco competitivo il meccanismo di transizione dalla scoperta in laboratorio, al processo di licensing del brevetto e alla creazione di una start up. Al netto di tutte le mie attività accademiche e di ricerca, un mio grande obiettivo è quello di ridisegnare questi ecosistemi di supporto alla ricerca biomedicale, allineando bisogni e modalità operative sia delle Istituzioni che degli Enti regolatori, nonché dei fondi di investimento.
In Italia, negli altri Paesi europei, c’è un’attenzione alla privacy molto elevata che rende più difficile l’interoperabilità tra sistemi informatici. In più manca anche una formazione e software in grado di supportare i medici. Cosa si potrebbe fare?
Questo è un tema particolarmente spinoso ed è un altro di quelli che seguo da quando sono tornato. La prima sfida raggiunta con fatica è stata eliminare qualche limite che rendeva più difficile la gestione e l’analisi dei dati dei pazienti. Dal 1° maggio 2024 è entrato in vigore la nuova formulazione dell’Art.110 bis del Codice privacy che al comma 4 permette agli IRCCS di utilizzare i dati personali raccolti a scopo di cura anche per ulteriori finalità di ricerca. Rimangono comunque limiti stringenti che impediscono di sfruttare al meglio questi dati, perdendo un po’ di capacità d’azione. Un altro problema enorme è quello della sanità regionale che ci ha portato ad avere 21 sistemi sanitari diversi, con sistemi digitali diversi, linguaggi diversi, metodologie e programmi operativi diversi che non comunicano tra loro.
Qualche anno fa Lei è tornato in Italia e ha fondato lo Human Longevity Program che dirige presso l’IRCCS San Raffaele di Roma. Cosa state studiando e che tipo di innovazioni possiamo aspettarci da qui a 10 anni?
Stiamo assistendo ad un’ondata di entusiasmo da parte di influencer e life coach che inneggiano ad una vita più lunga, la realtà è tutt’altra. Tra le cose che mi preoccupano di più: l’aumento dell’obesità, dei problemi metabolici, dei disturbi cardiovascolari, dei tumori, delle patologie neurodegenerative, tutte condizioni il cui esordio si manifesta in età sempre più precoci rispetto al passato. Chi guarda i numeri con attenzione e segue l’epidemiologia si rende conto che la situazione è preoccupante e che se non agiamo subito, questa sarà la prima generazione che vivrà meno dei genitori da quando noi conosciamo la storia umana. Gli studi recenti hanno iniziato a vedere una leggera diminuzione dell’aspettativa di vita in Italia. Una riduzione media annua di 0,4 anni che significa che tra 10 anni perderemo 4 anni di aspettativa di vita. Quindi le donne che oggi hanno una vita media di 85 anni l’avranno di 81 mentre gli uomini da 81 potrebbero arrivare a 77 anni di vita media. La sfida della longevità diventa, a questo punto, ancora più centrale perché alla luce delle malattie che aumentano, che anticipano, bisogna necessariamente attivare dei cambi di stili di vita ed introdurre percorsi di prevenzione e di diagnosi precoce/continuativa. Nel 2050 ci ritroveremo con 1/3 della popolazione over 65 con comorbidità, malattie croniche, calo dell’autonomia e dell’indipendenza, mettendo a dura prova la sostenibilità del sistema sanitario. Per questo, a livello europeo, stiamo portando avanti la tematica Trasforming Healthcare systems.
A chi è rivolto il Programma che sta portando avanti presso l’IRCCS San Raffaele di Roma?
Lo Human Longevity program è incentrato sulla gestione dei pazienti dell’IRCCS, quindi per chi sta già male, con l’obiettivo di migliorare una determinata problematica dal punto di vista terapeutico o riabilitativo, con un’importante componente multidisciplinare che include esperti di intelligenza artificiale, modelli di machine learning, e di analisi di big data. Sono tre gli ambiti di studio: cardiovascolare/respiratorio; metabolico; neurocognitivo.
Qual è l’area che l’attrae di più tra quelle descritte?
Sicuramente quella del cervello. Sarebbe inutile parlare di longevità senza la lucidità del cervello. Si rimane una scatola vuota se non si ha più la funzione cognitiva. Secondo me il cervello è il primo obiettivo di longevità e tutte le mie ricerche sono prettamente focalizzate in questo campo.
Ho sentito che Lei ha fondato la Longevity Week, un programma di benessere e longevità su NIKA Island alle Maldive. Di cosa si tratta?
Questa è una iniziativa personale di sensibilizzazione e divulgazione che mi sta a cuore perché tanti non comprendono quanto il benessere futuro è nelle nostre mani. Molte malattie alle quali accennavo prima, i 4 big killer, tumori, malattie neurodegenerative, cardiovascolari e metaboliche, hanno dei prodomi anche 20 anni prima della manifestazione clinica conclamata. Bisogna partire prima per contrastarle, invertendo la rotta per evitare l’urto futuro, o diagnosticarle tempestivamente nel caso ci sia già qualche segnale. Il progetto non rientra specificatamente nelle attività che porto avanti all’IRCCS San Raffaele ma rientra in quello che possiamo definire come la seconda area di intervento dello Human Longevity Program, dedicata non più a chi è già paziente ma a chi sta bene e vuole massimizzare la probabilità di invecchiare in salute, mettendo in atto in maniera molto anticipata una serie di correzioni agli stili di vita e alle abitudini che gli permetteranno di individuare i fattori di rischio in maniera precoce e di intervenire prima che il sintomo diventi troppo grave. L’idea dell’isola è ispirata al concetto delle “Blue zones”, le 4 aree del mondo dove c’è la più alta concentrazione di centenari in salute. Non a caso si tratta di tutte isole dove la vita scorre più lentamente ed in linea con quelli che sono i bisogni fisiologici del corpo, dove ci si muove di più, dove si mangia meglio perché i cibi vengono coltivati da un’agricoltura non industrializzata e dove c’è una componente alta di relazioni sociali. Su una piccola isola si conoscono tutti e paradossalmente si è molto meno isolati rispetto ad una grande metropoli in cui c’è più gente ma ci si conosce di meno. Ecco perché l’idea di Nika Island. Stiamo cercando di costruire un’altra blue zone, calando su quell’isola alcune delle regole centrali al concetto della longevità.
Posso chiederle qual è il costo per la mancata attenzione ai programmi di screening, ad un potenziamento di welfare sociale, dunque per un’omessa attenzione alla longevità, per la sostenibilità del nostro Ssn?
La mancata attenzione a programmi di screening, inevitabilmente porta a diagnosi tardive e quindi anche a trattamenti più costosi, aumentando il carico dei costi sul sistema sanitario. Bisognerebbe pensare ad un Piano Marshall della prevenzione sanitaria. Far capire a tutti che l’investimento va fatto su questo. Se facessimo interventi precoci su fattori di rischio, quindi diagnosi tempestive, vaccinazioni, programmi di screening e sensibilizzazione pubblica su prevenzione primaria e secondaria, in 10 anni il Sistema Sanitario Nazionale potrebbe risparmiare fino a 500 miliardi di Euro. I numeri non mentono.