Credente, liberal cattolico che, a differenza di parecchi suoi confratelli, possedeva il senso dello Stato e della patria, di cui fu custode e persino vittima. Questo fu Francesco (detto «Cencio» in un club di intimi) Cossiga, uno degli italiani più colti del secondo Novecento italiano.
La sua cultura antica aveva molteplici ascendenze. Quella che lo informò negli anni giovanili, a Sassari, sapeva di civiltà intramontabile anche se soggiogata, misteriosa in certi suoi riti, libera per natura, vocazione e scelta. La sua sardità traspariva in ogni suo rapporto, anche quando parlava un’altra lingua, di quelle impostesi come una novella sovranità in un’epoca nella quale l’esteriorità è considerata più opportuna che qualificativa.
Ancor giovane avvertì l’influenza di due grandi intellettuali stranieri: Thomas More, gran cancelliere cattolico d’Inghilterra che, per il suo rifiuto di prestare giuramento all’Atto di supremazia, che sanciva lo scisma anglicano, fu imprigionato e giustiziato; e Daniel O’Connel, cattolico irlandese indipendentista schieratosi per il distacco dell’Irlanda dalla Gran Bretagna, ma in modo pacifico e rifiutando il ricorso al ribellismo terroristico.
Da More, Cossiga trasse il principio della libertà di coscienza: leale, espressa con pensieri e azioni coerenti, anche se si è ai vertici di uno Stato che stravolge i propri valori sino a consentire l’inconsentibile ad un prepotente come Carlo VIII. Dal secondo, fu attratto dal suo franco indipendentismo e illuminismo che avevano fatto scuola nel cattolicesimo politico italiano, incontrando consensi tra i cattolici liberali e persino nel primo Pio IX, il quale affidò l’elogio funebre di O’Connel a padre Gioacchino Ventura, antesignano dei futuri democratici cristiani, fortemente osteggiato dai cardinali reazionari della curia romana.
Quei due inglesi di lingua e uomini di una comune fede animata di libertà, significarono, per Francesco Cossiga, un impulso a conoscere e approfondire, prima di affrontare responsabilmente un qualsiasi tema, specie se politico e d’ordine religioso.
Studioso di diritto, docente universitario a ventiquattro anni, Cossiga scelse la vita politica quasi con naturalezza, troppi essendo, da parte paterna e materna, gli ascendenti che, in opposti campi, si erano cimentati negli scontri politici con fierezza sarda.
Nel caso di Cossiga certamente contò anche il passaggio di regime dal fascismo alla democrazia repubblicana. Che indusse molta parte della sua generazione, in Sardegna come in tutta Italia, a gettarsi nella mischia scegliendo per campo non quello più comodo, ma il più logico per le affinità, le sensibilità, le preferenze di giovani che, di colpo, si trovarono traditi da un nazionalismo esasperato e supponente e di fronte ad un coacervo di una moltitudine di partiti che cercavano di affascinare con le parole della demagogia, pur consapevoli di non avere alle spalle grandi tradizioni credibili e giustificabili.
Il giovane professore di diritto si trovò presto anche in parlamento dopo aver ingaggiato nel suo partito, la Democrazia cristiana, un confronto di idee sulle quali i più giovani erano preparati rispetto ai pensionandi, quand’anche quest’ultimi fossero stati esemplari nella precedente militanza popolare. Fu semplice, per Cossiga, schierarsi per la repubblica, postulare l’autonomia regionale, rivendicare un aggiornamento dei programmi politici scudocrociati e un ricambio generazionale, ora che la Dc era il primo partito italiano, il partito di governo per definizione.
In una prima fase, non breve, Cossiga crebbe nell’orbita di Antonio Segni, mezzo parente, che si considerava almeno pari ad Alcide De Gasperi, il cui prestigio proveniva invece dal convinto consenso della maggioranza assoluta degli italiani, non da manovre isolane scudocrociate. Quando Segni permise ad Aldo Moro, dopo anni di umiliante attesa, la formazione di una maggioranza parlamentare di centro sinistra vero (cioè comprendente i socialisti), lo fece a condizione che la maggioranza democristiana (i dorotei con l’aggiunta della destra clericale di Scalfaro) lo portasse alle vette del Quirinale nel 1962.
Cossiga fu fedele a Segni e a quella maggioranza che conquistava sempre maggiore potere ma progressivamente dequalificando la linea politica democristiana sì che, neppure tanto lentamente, pareva che il centro sinistra fosse guidato dalla sinistra socialista, fortemente osteggiata dai comunisti. Ma, pur essendo una sorta di consigliere del re del Quirinale e della di lui famiglia, accentuò i suoi legami politici con Paolo Emilio Taviani. Il quale proveniva dai cristiano sociali liguri, era stato capo della resistenza a Genova e poteva a buona ragione considerarsi interprete di una delle componenti costitutive della Dc nell’autunno 1942.
Il sodalizio con Taviani fu importante per la libertà di movimento di Cossiga in un mondo democristiano sardo dove una qualsiasi ipotesi di dissenso rispetto alle disposizioni di Segni poteva significare la morte civile, oltre che politica. La presidenza Segni risultò piuttosto breve a causa di un ictus che, nell’agosto 1964, rese palesemente irreversibile e irrecuperabile la malattia e la persona del presidente. Circostanza che, inizialmente impressionò molto Cossiga, il quale ebbe difficoltà ad elaborare quella specie di lutto per una persona ancora vivente e, d’improvviso totalmente inabile. Poi prevalse il rapporto con Taviani. Questi era stato nel 1949 segretario della Dc; godeva fama di uomo di cultura e di interessi internazionali; aveva recuperato la gloriosa testata, «Civitas», di una rivista fondata negli anni Venti da Filippo Meda, ed ora non si sentiva più rappresentato da quei dorotei che pretendevano che l’uscita di scena di Segni non dovesse provocare alcuna ripercussione negativa su di loro. Cossiga si sentì affrancato dal condizionamento segniano e invogliato a contribuire criticamente alla linea del centro sinistra con qualche possibilità di incidenza politica e parlamentare.
Al congresso Dc di Milano del novembre 1967 accadde di tutto: gli interventi più applauditi furono quelli dei giovani basisti, in particolare di Gerardo Bianco, Ciriaco De Mita e Luigi Granelli; il gruppo di Taviani si enucleò ufficialmente, facendo venir meno la maggioranza assoluta dorotea; gli amici di Aldo Moro fecero quasi altrettanto, postulando una maggioranza di partito non escludente la sinistra politica e la sinistra sociale di Carlo Donat Cattin.
Praticamente iniziò allora un dialogo sempre più fitto fra Cossiga e la sinistra di base. Poco più tardi giunse l’adesione di Cossiga alla base, evento che rappresentò lo stadio di partenza della carriera del deputato sassarese, che lo avrebbe condotto a battere alcuni record cui civettuosamente teneva: più giovane ministro dell’interno; più giovane presidente del consiglio; più giovane presidente del senato; più giovane presidente della repubblica.
Cossiga era un giovialone, chiunque fosse il suo interlocutore. Spesso faceva sfoggio di quella sterminata cultura che si sentiva dentro e che non sempre poteva esprimere nelle pieghe dei riti protocollari parlamentari o istituzionali. Ma non faceva pesare questa sua superiorità oggettiva. Sfogava tutto ciò che, nella sua coscienza di uomo libero, si teneva dentro in maniera compressa, facendo delle interminabili passeggiate per il centro di Roma (Piazza San Silvestro – Via del Tritone – Piazza di Spagna – Piazza del Popolo – Via del Corso – Piazza Montecitorio, il percorso fisso), spiegando a chi aveva la fortuna di accompagnarlo tanto momenti della sua vita che giudizi o interrogativi su una politica la cui qualità andava declinando.
Discorrendo discorrendo, io col fiatone, lui sempre in testa come fosse un maratoneta sicuro di arrivare primo e arzillo alla solita destinazione, un giorno gli chiesi perché, abitualmente, lui il mese di agosto lo trascorresse regolarmente in Inghilterra e Irlanda non dedicando quelle vacanze alla propria famiglia, come tutti gli italiani. La sua prima risposta mi sbalordì: «Perché vado ad Oxford a studiare diritto costituzionale comparato». Al mio dubbio che un simile risultato potesse conseguirsi anche in una media università italiana, mi precisò: «No, vedi, io vado nella terra del costituzionalismo vero ma consuetudinario, dove, per capire ogni apparente dettaglio, occorre conoscere bene ogni parola inglese nella sua formulazione seicentesca e nelle svariate interpretazioni di oggi. Mi reco a Oxford anche per affinare il gergo parlamentare d’uso contemporaneo; in Irlanda, la mia preferita, vado per comprendere meglio come quel popolo libero per eccellenza tentasse di appigliarsi ad ogni possibile azione dei tribunali inglesi, sofisti, pignoli ma formalmente tolleranti delle obiezioni dei dissenzienti».
Cossiga era fatto così. Consapevole di possedere una memoria alla Pico della Mirandola, si divertiva a stupire se stesso, oltre che i suoi interlocutori (specie se di primo livello internazionale o medi parlamentari britannici), per accertare se costoro possedessero davvero la loro proverbiale preparazione politico-giuridica o fossero, come tanti colleghi italiani, primi ministri anzitutto, soltanto abili nel simulare conoscenze culturali cui, invece, non si erano mai sognati d’accostarsi, giudicandole superflue e politicamente irrilevanti: per poi ritrovarsi regolarmente, nei consessi internazionali, ad annaspare non capendo di cosa si stesse discutendo, specie in tema di europeismo e di sovranità sopranazionale.
Ora che Cossiga non c’è più, è un fatto: il disordine interpretativo di leggi e regole nei paesi dell’eurozona, con professoroni che sproloquiano di spread ma evitano di spiegare che differenza intercorra fra paese dominante e condizione oggettiva di paesi praticamente colonizzati, almeno in parte non sarebbe possibile se ci fosse ancora un Cossiga che, non solo come italiano, si mettesse a fingere di giocare con le parole per mettere in riga troppi accademici privi di reali basi culturali di riferimento e sprovvisti sia di senso dello Stato, sia di senso di un sovraStato politico, e non economico.
Cossiga non maturò un eccellente cursus honorum perché sapeva maneggiare le più raffinate tecnologie di comunicazione, come qualcuno insinuava. Anzi, quando si soffermava a spiegare, ad attoniti ministri competenti in disastri economici, a cosa servissero certi nuovissimi strumenti di collegamento (intercettazioni comprese, per cercare di individuare le fonti principali dei terrorismi internazionali non le pecche degli avversari politici), taluni degli scalpitanti colleghi di governo, impazienti di dire la loro in tematiche corporative implicanti soprattutto spese pubbliche, non si rendevano conto che il loro presidente del consiglio, parlando di «macchinette» non eludeva i problemi concreti. Al contrario faceva notare, con esempi paradossali (ma non troppo) che, per governare, servono poco gli econometrici, se difettosi di visione reale generale di un mondo che cambia e non aspetta i politici supponenti con le loro ambiguità, titubanze, indecisioni dovute al timore di essere raggiunti da qualche interferenza giudiziaria indebita.
Cossiga arrivò al traguardo del Colle non tanto per grazia ricevuta (una sorta di compensazione per le sue dimissioni da ministro dell’interno dopo il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro e perché era l’unico in grado di mediare fra democristiani e comunisti malgrado la comune avversione per il socialismo trionfalistico ed assieme minoritario e impotente), quanto perché conosceva tutto di tutti: le debolezze e carenze dei singoli; le tante miserabilità politiche; l’urgenza di cambiare rotta sul piano delle riforme, se si voleva impedire di essere travolti sul piano ordinamentale, oltre che su quello economico, in progressivo aggravamento per una generale politica della spesa volta solo a coltivare le clientele e a non perderne il consenso.
Tutti (forse) sanno che, se non fosse stato eletto al primo scrutinio, Cossiga non aveva la forza di trovare nuovi consensi già solo nel secondo. La crisi dei partiti e delle istituzioni era già visibile e grave. La sua elezione ebbe del miracoloso, essendoci già un clima generale di divisioni e di ambizioni ingiustificabili. Per i primi quattro anni gestì il Colle senza debordaggi e senza lode. Mediava, consapevole che la sinistra era a pezzi, coi comunisti che arretravano sul piano della proposta riguadagnando la tattica di nessuna opposizione sulla sinistra per apparire sempre compatti; e coi socialisti che parlavano di Grande Riforma, s’inorgoglivano delle proprie quotidiane uscite d’una qualche idea modificatrice, ma puntavano esclusivamente a rovesciare (credendoci?) i rapporti di forza ed elettorali tornando ai tempi del riformista Filippo Turati.
Quanto ai democristiani, – che s’aspettavano una presidenza della repubblica equilibrata, non interventistica, prona agli interessi del partito di maggioranza relativa che aveva studiato il percorso attraverso il quale riteneva si potesse giungere ad una riforma costituzionale largamente condivisa -, essi non s’avvedevano che non erano i desideri di questa o l’altra personalità a poter cambiare il volto dell’Italia. Ma che occorreva una politica di grande attenzione per i profondi mutamenti strutturali che mettesse al riparo il paese dai vari fallimenti; quelli progressivi del centro-sinistra; gli altri della solidarietà nazionale ai bordi di un compromesso storico sgradito alla maggioranza dei parlamentari tanto della Dc che del Pci; per non parlare di un pentapartito che non era né carne né pesce, ma sembrava ormai puzzare di merce avariata.
Quando si profilò la svolta del 1989, Cossiga comprese tra i primi che il mondo non sarebbe più stato com’era. Da buon realista, era consapevole che l’Occidente doveva la sua vittoria storica, nell’ordine, a due personaggi: al presidente americano Ronald Reagan (che aveva fatto chiaramente capire all’Urss di Gorbaciov che l’ideologismo sovietico non reggeva più una competizione con gli Usa né sul terreno militare né su quello economico-sociale); e al papa Giovanni Paolo II, che, optando per i dissenzienti di Solidarnosc, aveva fatto implodere la Polonia cattolica, facendo crollare la mitologia sovietista, che implicava soltanto l’impoverimento del complesso Est europeo.
La classe politica italiana non fu all’altezza dei nuovi compiti che il crollo del comunismo comportava anche nel campo dei vincitori morali di un conflitto lungo quasi un secolo. Tutti parevano voler tirare a campare come non fosse accaduto nulla di rilevante. Cossiga comprese, invece, che la politica italiana o si autoriformava o la stessa democrazia nazionale sarebbe caduta preda di manovre straniere: quasi come ai tempi dell’Ottocento, quando la disunità d’Italia permetteva le scorrerie disinvolte di austriaci, francesi, inglesi, spagnoli, separatisti isolani.
Emerse allora prepotente la seconda parte del settennato cossighiano; che superò, per quantità, intensità e puntigliosità, gli strabordaggi costituzionali di Segni, Saragat e Pertini messi assieme. Una sorta di tribunale di ministri, capipartito e capicorrente, non essendo in grado di replicare agli addebiti che Cossiga muoveva a tutti (dal Pci al Movimento sociale di Gianfranco Fini), lo accusò d’essere diventato pazzo. Occhetto tentò persino di portare avanti la procedura d’impeacement del capo dello Stato, manco questi fosse un tiranno solo perché tirava per la giacchetta i partiti a fare qualcosa per salvare se stessi e, indirettamente, la democrazia italiana.
Intendiamoci. Cossiga faceva il pazzo senza esserlo, volendo mettere partiti e istituzioni dinanzi alle loro responsabilità, per assumere le quali tutti ritenevano di avere ancora tempo, magari decenni, senza procedere a riforma alcuna. Però Cossiga era anche obbiettivamente depresso, fortemente deluso dall’incapacità critica di personalità intelligenti che sembravano preferire le manovre tradizionali alla presa di coscienza degli avvenimenti. La depressione gli scoppiò dentro come una malattia vera, non immaginaria. Non era un ipocondriaco. Di depressione in depressione cadde in altri malanni fisici che, con una certa frequenza, l’avrebbero condotto a seri interventi chirurgici.
Il settennato di Cossiga finì poco gloriosamente per i grandi elettori che lo avevano portato sul Colle più alto di Roma. Quanto a lui, considerò finalmente finita una lunga sofferenza e consapevolezza d’impotenza. Fu l’unico capo di Stato (degli undici che si sono susseguiti a cominciare da De Nicola) che non pensò mai ad una ricandidatura: impossibile, dati i rapporti politici, ma soprattutto perché Cossiga – per la sua cultura costituzionale – non pensava fosse corretto trasformare il vertice repubblicano in una sorta di monarchia. Quattordici anni di potere ininterrotto, anzi, sono forse più d’una monarchia assoluta.
Cessato il settennato contrastato per il lungo finale di quotidiani richiami ai partiti a fare le riforme, a sottrarre all’ordine giudiziario poteri di cui i pm si erano appropriati con le loro teorie sulla giustizia creativa e su quella, arbitraria e irresponsabile, del «doppio Stato», Cossiga tornò nei ranghi. Curò i propri malanni fisici senza rinunciare a dare lezioni di costituzionalismo ai troppi aspiranti prim’attori d’una modesta e squalificante Seconda Repubblica. Ovviamente, non si riconobbe nei suoi successori, men che mai in Scalfaro; ma neppure nel Ciampi della concertazione sindacale (che allo strapotere dei partiti aggiunse uno strapotere ancora più incidente della trimurti sindacale) e nemmeno in Napolitano. Cioè nel postcomunista più sobrio, ma anche il più sottile nel richiamare riforme scontate; bacchettare il centro-destra ma non il sinistra-centro laddove questo adottava le medesime procedure di Berlusconi: questioni di fiducia a gogò; rinvio programmatico di ogni decisione concernente la vecchia carta costituzionale del 1948; rifacimenti parziali della sola seconda parte della costituzione, già più volte modificata con l’effetto di squilibrare ulteriormente il già imperfetto equilibrio dei poteri e degli istituti chiamati a garantirlo sortito dai compromessi destra-sinistra nel biennio costituente.
Nei suoi numerosi (e preziosi) libri, scritti a due o quattro mani poco importa giacché i concetti erano tutti propri dell’ispiratore, oltre che anche nelle sue alluvionali conferenze e interviste, sempre dense di ironia e precisione di circostanze, dati, uomini, Cossiga spiegò di considerare la carta del 1948, un progetto malato di sovietismo; e, perciò, bisognevole di una revisione totale. Era problematico dargli torto se ancora nel 2012 gli stessi esponenti dell’ex Pci – sempre sulla breccia e che non intendono farsi da parte ma anzi confermano le proprie ambizioni – ammettono che i tempi di un’Italia rurale e parzialmente operaista non ci sono più e la carta è logora, impasticciata, traballante.
Carissimo Cencio, non avrei mai pensato, quando facevamo certi ragionamenti lungo quel percorso che ci eravamo prefissato per consuetudine, che avrei avuto in sorte di ricordati per come eri, anche quando ti dipingevano in maniera diversa o ti attribuivano vizi del tutto inverosimili. Ma tu sai, meglio di me, che la coerenza costa e raramente premia: così va la «politica», si fa per dire, italiana. Ciao. A rivederci con Rosmini, O’Connel, De Gasperi, che abbiamo avuto per maestri insostituibili e vedevano lontano, con lungimiranza.
Giovanni Di Capua