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Germania ricca, tedeschi poveri

La Germania, con l’euro, è certamente diventata più ricca e potente. Ma, a quanto pare, non lo sono diventati i tedeschi, anzi. Il paradosso è spiegato da Alessandro Penati in “Germania nell’euro non è obbligatorio”, pubblicato lo scorso 7 luglio su la Repubblica: “Nei 14 anni della moneta unica la Germania è cresciuta in media all’1,35%” ma “il livello dei consumi privati è rimasto sorprendentemente stagnante (0,7% la crescita media)”, “con i salari netti cresciuti mediamente dell’1,3%, mentre il costo della vita aumentava dell’1,6%”.
Secondo Penati, “per le imprese tedesche, l’euro è stata manna dal cielo; ma per Herr Muller è stato un pessimo affare”. Ciò in quanto “tutti gli incrementi di produttività sono andati in profitti. I tedeschi hanno perso anche con il mattone. Caso unico: i prezzi delle case sono oggi più bassi che nel 1998 (in Italia +40%, Francia +100%). Lo Stato ha contribuito, facendo gravare su consumi e reddito da lavoro il 90% dell’intero gettito fiscale”.
 
La crescente ricchezza della Germania, quindi, non corrisponde a quella dei tedeschi perché si è, sostanzialmente, tradotta in profitti per le imprese. Ho parlato di paradosso, ma i dati illustrati da Penati confermano quanto sostengono, da tempo, autorevoli economisti e filosofi, come Amartya Sen e Martha Nussbaum, secondo i quali il denaro prodotto da una nazione non ha necessariamente effetti positivi sulla felicità e il benessere delle persone che vi abitano, dipendendo questi ultimi dalle possibilità di sviluppare le proprie capacità e dalle occasioni di poterle applicare nella società in cui si vive.
 
Non è questa la sede per prendere posizione sui diversi modelli di sviluppo. Ma certo dinanzi a dati come quelli forniti da Penati non si può fare a meno di chiedersi quale sia la attuale giustificazione dei paradigmi economici che orientano le azioni dei governi e in nome dei quali vengono richiesti continui sacrifici ai cittadini dell’area euro.
Tutti convengono che quella in corso è una crisi di sistema. Proprio per questo non può che sorprendere l’incapacità – o, forse dovremmo dire, la indisponibilità – di chi ha responsabilità di governo, a livello nazionale e comunitario, ad aprire una riflessione sui fondamentali del modello di sviluppo socio-economico sin qui adottato.
 
Se la crescente ricchezza della Germania (l’unica economia che esce, veramente, rafforzata dall’avventura dell’euro) si traduce in profitti per le imprese senza vantaggi per i redditi dei tedeschi, delle due, l’una. O è viziato il modello economico di riferimento e, allora, sarebbe quantomeno opportuno procedere ad una pubblica riflessione su cause e prospettive. Ovvero, in mancanza di iniziative in tal senso, non può che ritenersi che siano cambiati gli obiettivi dell’azione di governo, con il profitto delle imprese che prende il posto del benessere dei cittadini.
Le perplessità aumentano se si considera che, nella letteratura economica, è messa ormai in discussione la identificazione tra benessere e reddito. Il paradosso della felicità denuncia che, oltre un certo livello, il reddito non porta ben-essere. Ma allora perché l’azione di governo, a livello sia nazionale sia comunitario, è tutta concentrata sul Pil, tanto da riproporre la riduzione delle festività? Per aumentare il Pil, si sostiene, occorre lavorare di più e, pertanto, è necessario sopprimere qualche giorno di festa. La ricchezza cessa di essere – come, invece, insegna Aristotele – mezzo per la felicità e diventa essa stessa fine, per di più, a danno della felicità. Questo sì che è un paradosso.
 
Un paradosso che svela le intrinseche contraddizioni dell’attuale modello di sviluppo ove l’economia non è più un ordine tra gli ordini al servizio dell’uomo ma, in ragione della pretesa naturalità delle sue leggi, si è sostituita alla politica, definendone l’orizzonte. Ma se la ricchezza della nazione non si traduce (di per sé) in quella dei suoi abitanti e se la ricchezza degli abitanti non comporta (necessariamente) la loro felicità/benessere, l’azione di governo potrà avere successo solo ristabilendo le priorità, ossia rimettendo al centro delle sue politiche le persone. Altrimenti si potrà anche uscire dalla crisi economica ma senza che a beneficiarne siano i cittadini.


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