Dallo spionaggio digitale alla manipolazione cognitiva, l’intelligence economica è ormai una dimensione chiave del confronto geopolitico. Dati, algoritmi, fughe di notizie e short selling diventano strumenti per indebolire mercati e orientare decisioni strategiche. Le democrazie si attrezzano, ma il fronte è ancora frammentato. L’analisi di Raffaele Volpi
Nell’ombra della geopolitica, tra i flussi digitali e le sale operative dei mercati, si muove un fenomeno tanto silenzioso quanto devastante: lo spionaggio economico. A differenza della legittima raccolta informativa nota come competitive intelligence, lo spionaggio economico infrange leggi, penetra confini invisibili e insidia la sovranità finanziaria degli Stati. È la guerra fredda del XXI secolo, combattuta non con missili ma con algoritmi, dati e manipolazione cognitiva.
I suoi obiettivi sono precisi e strategici: tecnologie emergenti come l’intelligenza artificiale e i semiconduttori, piani di fusione bancari, politiche energetiche, proiezioni di stress finanziario e, soprattutto, la linfa dei mercati globali — i flussi di capitale e i dati ad alta sensibilità. Dietro queste operazioni si celano attori statali, spesso tramite entità ibride o schermate, che agiscono con metodi sempre più sofisticati. Il cyberspazio, prima linea del conflitto, è il terreno privilegiato per hackeraggi mirati a istituti bancari, fondi sovrani o dispositivi personali di dirigenti strategici. Tecniche di Advanced Persistent Threat — note per essere impiegate da Cina, Russia, Iran, Corea del Nord ma anche da potenze occidentali — infiltrano, osservano e attendono, silenziose come mine digitali.
Ma il fronte non è solo digitale. L’infiltrazione fisica — la vecchia arte della Humint, l’intelligence umana — continua a giocare un ruolo centrale: agenti posizionati in banche centrali o fondi d’investimento, impiegati corrotti, documenti trafugati per piegare decisioni chiave. Accanto a queste tecniche, si muove una strategia ancora più insidiosa: la guerra dell’informazione. In un’epoca in cui un tweet può bruciare miliardi di capitalizzazione, la diffusione di notizie false, indiscrezioni artefatte e “leak” manipolati è diventata un’arma. Troll, media ibridi e piattaforme come Reddit o X (ex Twitter) sono strumenti per pilotare l’opinione, spaventare gli investitori, far collassare il valore di una banca in poche ore.
La dimensione tecnica si estende anche alle intercettazioni e alla Sigint (Signal intelligence): captazione di comunicazioni finanziarie, accesso abusivo a sistemi informativi globali come Swift o Bloomberg, persino l’uso di satelliti per raccogliere segnali invisibili a occhio nudo ma cruciali per i mercati. L’obiettivo? Destabilizzare, colpire e poi scomparire.
La storia recente offre esempi eloquenti. Tra il 2008 e il 2011, indiscrezioni su banche italiane e greche, provenienti da fonti anglosassoni, contribuirono all’impennata dello spread e alla messa sotto pressione delle linee Bce. Nel 2020, il caso Wirecard dimostrò come un semplice leak — vero o orchestrato — potesse minare un intero ecosistema fintech. Più recentemente, tra il 2022 e il 2023, le banche polacche e ucraine sono state bersaglio di attacchi digitali riconducibili a attori russi, in una nuova forma di guerra ibrida che affianca ai carri armati le vendite allo scoperto.
Lo short selling è infatti una delle tecniche più ambigue: si diffonde un’informazione segreta (non sempre vera), si scatena la tempesta vendendo titoli allo scoperto, si guadagna sul panico generato e poi si rientra in silenzio. A volte dietro questi fondi speculativi si celano interessi statali, creando una sinergia inquietante tra finanza e strategia geopolitica.
Anche gli strumenti finanziari stessi diventano leve di potere: sanzioni selettive costruite su intelligence mirata, manipolazione di valute e indici attraverso operazioni coordinate delle banche centrali, pressioni sulle agenzie di rating e controllo narrativo via social media. Non si tratta solo di colpire, ma di orientare il sistema, deviare il corso della fiducia.
In questo scenario, le contromisure sono ancora frammentarie. A livello statale si moltiplicano le unità di intelligence economica — come Anssi in Francia o Cset negli Stati Uniti — e si rafforzano le infrastrutture cyber-difensive. Meccanismi come il golden power, lo screening degli investimenti esteri e le collaborazioni tra ministeri e autorità di vigilanza stanno diventando la norma. Le imprese e le banche, dal canto loro, si dotano di Vpn sovrane, crittografie avanzate, audit permanenti e sistemi AI capaci di analizzare le origini di una notizia prima che questa faccia danni irreparabili.
Per l’Italia, il cammino è ancora in costruzione. Serve una piena integrazione tra l’intelligence economica e istituzioni come Banca d’Italia e Consob. Cassa Depositi e Prestiti e Sace dovrebbero evolvere in strumenti di resilienza attiva, non solo di investimento. E in un contesto europeo sempre più minacciato, è ora di pensare a un’intelligence economica continentale, capace di proteggere i campioni industriali e contrastare le campagne informative ostili prima che colpiscano.
Lo spionaggio economico non è più una deviazione marginale: è parte strutturale del confronto globale. I suoi effetti si leggono nei grafici delle Borse, nel valore di una valuta, nei crolli improvvisi che minano la fiducia non solo nei mercati ma negli Stati stessi. Non si tratta più solo di “economia”, ma di sovranità. Ed è tempo, anche per l’Italia, di dotarsi di una dottrina nazionale di contro-intelligence economica, capace di prevenire, difendere e — se necessario — rispondere.