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Un pollo arrosto. Il racconto inedito di Giuseppe Fiori

Di Giuseppe Fiori

Un adolescente del dopoguerra, al tempo del neorealismo, in attesa del suo pollo arrosto tra Rieti e la Stazione Termini di Roma. Un racconto inedito, alla Maupassant, di Giuseppe Fiori

Per un lungo periodo della mia infanzia ho mangiato un pollo quasi ogni settimana, un pollo arrosto che mia nonna materna spediva il giovedì da Rieti con la corriera chiamata Sabino. Un pullman verde penicillina che percorreva la vecchia Salaria da Rieti a Roma con molte fermate intermedie, ultima quella della dogana prima di Roma, all’altezza di Monterotondo scalo. Erano gli anni del dopoguerra, una lunga primavera cominciata quel 25 Aprile, con la Repubblica che in un quinquennio, aveva superato alcuni passaggi fondamentali – il referendum, la Costituzione, le elezioni –  con la sicurezza di stare finalmente sulla sponda giusta della Storia.

La fine degli anni ’40 forse arrivò troppo presto e l’inizio del periodo successivo riuscì, solo per un po’ di tempo, a mantenere l’atmosfera precedente di liberazione dal nazi-fascismo e di rinascita primaverile del Paese.

Nei primi anni ’50 quel gusto sembrava essersi diluito, come se al Bar avessimo scelto di prendere un caffè lungo invece di un espresso. Eppure quella sorta di  ormai estiva normalità riusciva ancora, dopo le macerie della guerra, a mantenere l’eccitazione della primavera appena trascorsa… proprio come un caffè lungo, però corretto al Mistrà.

Ma la nuova normalità non doveva aver ancora regolato l’afflusso dei beni di consumo dalla campagna alla città, se mia nonna Ghitarella – diminutivo di Margherita, affibbiato dal padre svizzero per la sua silhouette minuta – continuava a spedirmi un pollo arrosto alla settimana dalle terre sabine.

Lo incartava con la carta oleata ancora tiepido, e poi lo avvolgeva con una carta più spessa, blu notte, come quella usata per il cielo nei presepi; il fagotto, legato con lo spago e annodato  più volte, veniva affidato al bigliettaio del Sabino  con le ultime raccomandazioni.

Sulla fiancata del pullman spiccavano i nomi dei proprietari “Fusacchia, Pitotti, De Santis”, che erano riusciti ad assicurare corse quotidiane di andata e ritorno, dalla provincia sabina per l’impervia Salaria fino alla capitale, nel periodo pre e post bellico.

A Rieti c’era una piccola stazione ferroviaria – c’è ancora – ma di littorine solo una pallida presenza, da qui la necessità di una linea di corriere che garantisse una certa regolarità di trasporto di persone e cose, anche se i tempi di percorrenza, solo occasionalmente, potevano essere rispettati.

La vecchia Salaria era stretta e tagliata tra i campi in mezzo agli alberi, con curve a gomito negli ultimi 30 km verso e da Rieti che sballottavano il mio pollo arrosto poggiato sulle retine per i bagagli, sopra i sedili dei viaggiatori, in compagnia di caciotte, salami e salsicce, e, soprattutto, di pericolanti lattine di olio di oliva.

Sinceramente non so perché in un angolo della mia memoria si sia annidato il ricordo del pollo arrosto viaggiante di nonna Ghitarella, e spero che questo scritto contribuisca a svelare il mistero della sua persistenza, oppure lo releghi definitivamente tra le numerose cianfrusaglie mnemoniche di cui non intendiamo sbarazzarci.

Il luogo di consegna di quel pacco blu era a Via Palestro, non lontano dalla Stazione Termini, dove c’erano gli uffici romani della “Fusacchia, Pitotti, De Santis”. Non avendo ancora la bicicletta, tra me e il pacco, ci volevano due autobus: un lungo tragitto in cui c’era modo di riflettere, settimanalmente, su quel rito alimentare.

Certo la figura di mia nonna era stata centrale per me dato che ero nato a casa sua a Rieti e che mia madre, dopo il parto casalingo, era rimasta immobilizzata per tre anni, gli ultimi tre della seconda guerra mondiale. Con la pace erano arrivati i farmaci americani e Wanda aveva potuto tornare finalmente a Roma con me nella casa dove avremmo vissuto con mio padre.

Con quel pollo arrosto settimanale Ghita, oltre al naturale nutrimento, voleva certo mantenere il filo dell’affetto che l’aveva legata al suo nipotino fin dalla nascita.

Sì, Ghita era il diminutivo del diminutivo Ghitarella, con cui avevo cominciato presto a chiamarla, scoprendo soltanto molto più tardi che nella tradizione fiabesca germanica, come hanno testimoniato i Fratelli Grimm, ci sono molte sapienti Ghite nelle storie paesane.

C’era un’evidente sproporzione tra il tempo impiegato nel viaggio di andata e ritorno, da Corso Trieste – dove abitavamo con mio padre Giovanni Battista – a Via Palestro, e lo scopo del viaggio stesso, che solo la bontà di quel pollo e l’abitudine al tragitto rendevano sopportabile: l’abitudine a quei periodici lunghi viaggi nelle vie di Roma, ma anche a quell’attesa della corriera verdolina mai puntuale e a quelle quattro chiacchiere con il bigliettaio del Sabino quando mi consegnava il pacco con la carta blu e lo spago da recuperare. Perché lo spago non si buttava mai!

Un uomo, il bigliettaio, con una divisa grigio polvere simile a quella dell’autista ma senza il berretto, che intendeva reclamare, come mi resi presto conto,  un preciso suo ruolo in quel rito non soltanto alimentare.

“Quando tua nonna me lo ha consegnato questa mattina il pacco era ancora caldo, sei fortunato ad avere un pollo arrosto tutto per te. Crescerai forte e sano con queste attenzioni familiari…”

Nelle linee extraurbane la figura del bigliettaio non era certo secondaria, per le numerose fermate e il sali-scendi continuo, con il relativo movimento bagagli. La vecchia Salaria era costellata di molti paesini in cui la corriera si fermava, e di snodi stradali per altre direzioni: uno dei miei preferiti era quello di Capannaccia, in cima a una collinetta. Ci si arrivava dopo una serie di curve in salita, sia per chi veniva da Roma e sia per chi scendeva da Rieti, e dopo una lunga fermata la corriera si lanciava in altrettante curve a gomito strette e pericolose.

In quel punto c’era il bivio con la strada provinciale che s’inoltrava nell’entroterra sabino, in direzione di Rocca Sinibalda, di Longone e del lago del Turano.

All’incrocio tra le due arterie c’era un’Osteria dove cuocevano il pollo alla creta dentro un forno a legna. Certo la fermata non consentiva di gustarlo sul posto ma di sentire il suo denso profumo questo sì, come anche di farselo impacchettare appena sfornato.

Per il tempo possibile ci si sgranchiva anche un po’ le gambe, le curve mettevano a dura prova i viaggiatori più sensibili.

“Come sta mia nonna?” chiedevo sempre al bigliettaio.

“Una donnina di ferro” alludendo alla sua bassa statura “sempre in movimento, ha tirato su due figlie e un figlio e tu sei il primo nipote. Mi ha raccontato che, durante la guerra ti portava in giro in carrozzina tutte le mattine a prendere aria, perché i bambini non debbono stare al chiuso.”

“Mi portava lungo il Velino, scendevamo per Via Roma e incontravamo subito il fiume che scorreva tranquillo con le sue acque chiare. Per un certo periodo, come tanti, per evitare i bombardamenti siamo stati sfollati a Cantalice,” parlando col bigliettaio scavavo nella mia fresca memoria “e una volta a casa del fratello di mia nonna sul lago di Piediluco…”

Incredibile, quel tempo era già il passato, anche se era accaduto soltanto ieri. Il mio oggi era ormai la grande città, la scuola, i compagni…

La scuola elementare “Giuseppe Mazzini” era accanto a Parco Nemorense, dove, dopo le lezioni, giocavamo a palline e a pallone e dove i righelli da disegno diventavano spade da pirati e fioretti da moschettieri.

Quando avevo iniziato la prima elementare mio padre mi aveva detto “Pensa Giuseppe tu impari a leggere e a scrivere nello stesso anno in cui viene proclamata la Costituzione della Repubblica Italiana. Ricordatelo.”

Lì per lì non capii certo cosa significavano le sue parole, ma in seguito ho potuto spesso apprezzare la sua parsimonia nelle spiegazioni: i significati dovevi trovarteli da solo.

La “Mazzini” aveva un grande spiazzo prima della scalinata d’ingresso dove ci accalcavamo con i grembiuli blu e i fiocchi bianchi noi maschi e, au contraire, col grembiule bianco e i fiocchi blu le femmine, prima di entrare nelle classi o a fine mattinata, dopo l’uscita.

In cima alla scalinata si stagliava l’imponente sagoma di Coltellacci, il bidello con il grembiule nero che camminava su e giù zoppicando da una gamba, mentre scrutava quella massa vociante, cromaticamente disciplinata.

E per chi già leggeva Topolino era impossibile non identificarlo con Gambadilegno, il truce avversario di cui beffarsi o a cui sottomettersi.

In realtà su quella scalinata c’era una guardia del confine dove finiva il territorio del piacere e iniziava quello del dovere, palline e palloni avrebbero dovuto aspettare, ma non l’immaginazione che creava storie di fantastici duelli e altre avventure, quella poteva tornare utile proprio all’interno delle mura scolastiche.

Anche andare a ritirare il pacco con il pollo arrosto era, col tempo, diventato un dovere a cui però mi assoggettavo per il piacere della ripetitività.

Una volta a casa poi c’era il rito di assaporarlo lentamente; il pollo arrosto è una pietanza importante perché ogni sua parte ha un gusto diverso, petto e coscia non hanno lo stesso sapore. E le ali sono per i buongustai.

In poche occasioni penso di averlo mangiato tutto intero, in genere una metà avanzava per il giorno successivo, comunque il pollo arrosto di Ghitarella, che aveva viaggiato per quasi 100 km, era interamente riservato a me. Che stavo crescendo in un posto del mondo dove un bambino veniva regolarmente sfamato e istruito, come sottolineava ogni tanto mia madre quasi per un reciproco senso di colpa.

Wanda, nell’interpretare il secondo atto della commedia materna – avendo purtroppo perso il primo – prendeva spesso spunto dalle piccole occasioni per impartirmi qualche lezioncina, destinata a rimanere più o meno impressa come quelle scolastiche. Lezioni, però, mai retoriche, con quell’apparente sospensione dal reale che avrei imparato a chiamare “leggerezza”. Salvo quando evocava figure di bambini denutriti, ricordi della guerra per lei fin troppo recenti.

Mi apparecchiava con una tovaglietta e un piatto, e assisteva al rito del mio pasto – il petto con forchetta e coltello, le cosce impugnate con le mani – felice di non averlo dovuto cucinare lei. Non amava cucinare, Wanda, ed è riuscita a non farlo per quasi tutta la vita.

Alla fine, quando nel piatto restavano solo le ossa, facevamo “Flic e Floc” con le due ossette a V dello sterno del pollo, un guizzo finale praticamente irrinunciabile.

“Non ti stanchi mai di mangiare pollo arrosto?” mi chiedeva ogni tanto il bigliettaio del Sabino.

Perché avrei dovuto stancarmi?

Nel mosaico di un’intera vita, che avevo cominciato a comporre con poche per me significative piccole tessere, ero riuscito a inserirne un’altra, color creta, sullo sfondo.

C’era un ultimo elemento che conquistava la mia attenzione: la forma del pollo già arrostito, una forma che potevo guardare e toccare a mio piacimento. Una piccola scultura, insomma, di  una materia piacevolmente commestibile.

Non posso dire che la scoperta della forma sia arrivata proprio con quella composizione, perché un bambino reagisce anzitutto alle superfici, alle linee, ai colori e alle forme, ed è provato che sviluppiamo prestissimo il lato estetico della vita.

L’essenzialità delle forme e il rapporto con la qualità organica della materia inevitabilmente richiamano alla mia mente le sculture di Constantin Brancusi, che, in un periodo della vita piuttosto successivo, ho potuto ammirare all’Atelier Brancusi a Parigi, insieme a mia moglie Maruzza (a questo punto direi che anche l’onomastica è un fattore importante nella vita delle persone e delle loro relazioni).

Il Bacio, una “pietra” squadrata in cui sono appena accennate due figure, è stata la rivelazione di volumi essenziali sensibili alla loro collocazione nello spazio. Come i nostri volti.

Un improbabile fil rouge sembra insomma legare, nella mia memoria, le forme autosufficienti del volto umano e del corpo animale scolpite da Brancusi, gli ovoidi astratti, la materia grezza da scolpire e levigare come la pietra, il bronzo, il legno, il marmo, alle forme che hanno accompagnato quel periodo di vita. (Dopotutto, e a mia scusante, il pollo alla creta aveva una forma perfettamente ovoidale).

Una forma, contro ogni probabilità, destinata a rimanere impressa, perché per me ha rappresentato simbolicamente qualcosa di continuamente riproducibile, tipo le zuppe di pomodoro Campbell disegnate da Andy Warhol o i ritratti di Marilyn e di Mao. Quel pollo arrosto, in forma di racconto, è stato un pezzetto del mio ieri, nella primaverile stagione del dopoguerra; la sua scomparsa potrebbe produrre una piccola crepa nell’edificio, già instabile, della mia memoria semantica.

Tra le tante riflessioni che ho letto sull’infanzia quella di Daniele Del Giudice mi ha colpito come un pugno: “L’infanzia – scrive in Staccando l’ombra da terra – è anche una certa quota, un certo rapporto con la terra, una questione di dimensioni che non si avranno mai più, un punto di vista ad esaurimento, di cui, una volta perduto, si perde perfino la memoria.”

Oggi, da anziano, quando capita di trovarmi in zona, alla Stazione Termini – c’è sempre nelle varie stagioni della vita un pullman o un treno da prendere o da aspettare – sento provenire dalle rosticcerie degli arabi e degli indiani di Via Giolitti un intenso aroma di pollo arrostito, una presenza costante, uno sfondo per scene sempre diverse.

E stranamente ciò che è sullo sfondo, come una traccia leggera, si sottrae meglio al soffio del Tempo, nascosto com’è dietro un paravento. Ecco perché giochiamo, del tutto inconsapevolmente, a disporre frammenti insignificanti del passato accanto ai ricordi più significativi della nostra esistenza.


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