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Perché i rating possono far esplodere il debito pubblico italiano

Da luglio dello scorso anno le tre agenzie di rating S&P’s, Moody’s e Fitch hanno ridotto il rating sul debito sovrano di lungo termine dell’Italia, ora più vicino al limite che separa le obbligazioni considerate meno rischiose, appartenenti al segmento Investment Grade, da quelle ad alto rendimento e a maggior rischio di default (Speculative Grade, in gergo “junk”). Ulteriori downgrade rischierebbero di far attivare meccanismi automatici che caratterizzano alcuni investimenti, con vendite di titoli di Stato italiani non dipendenti solo dal grado di avversione al rischio degli operatori.

Il recente acuirsi delle crisi politica italiana potrebbe aumentare la probabilità di nuovi declassamenti e, anche se la soglia di passaggio da classe di rating “Investment” a “Speculative” non è vicinissima (ancora due o tre notch, a seconda dell’agenzia), è utile esaminare i problemi associati a questa possibilità. Se ipotizziamo che il comportamento della maggior parte degli operatori domestici (famiglie, banche, fondazioni e assicurazioni che, insieme alle altre istituzioni finanziarie, detengono nel complesso circa il 56% dei quasi € 1750 miliardi di titoli italiani in circolazione, potremmo verosimilmente attenderci una fuoriuscita da parte degli investitori esteri che dall’inizio del 2012 avevano ricominciato a dare un po’ di fiducia al nostro Paese. L’entità di tale flusso è difficile da stimare ma è possibile fare una valutazione in base agli “automatismi” che caratterizzano alcune tipologie di investimenti. Una quota importante degli investitori esteri è infatti rappresentata dagli istituzionali: se il debito italiano dovesse scendere sotto la soglia di Investment Grade, i relativi titoli sarebbero esclusi da molti indici benchmark di obbligazioni governative e, di conseguenza e in modo automatico, da numerosi Fondi comuni d’investimento ed ETF obbligazionari. Questi sarebbero obbligati a liquidare le posizioni in obbligazioni italiane, per rispettare regolamentazioni o policy interne.

Per quanto riguarda l’inclusione negli indici obbligazionari, i principali provider quali Barclays, Bank of America/Merrill Lynch, J.P. Morgan e iBoxx utilizzano la media dei rating o il rating più conservativo (o i due rating più conservativi) fra le tre agenzie S&P’s, Moody’s e Fitch (“Index rules”). L’Italia ha un rating medio BBB ma per tutte e tre le agenzie l’outlook è negativo e, con l’aggravarsi della crisi politica, nuovi declassamenti diventano più probabili. Secondo la metodologia degli indici obbligazionari, per perdere la qualifica di Investment Grade da parte di tutte e tre le agenzie, l’Italia dovrebbe subire un declassamento di due notch da S&P’s e Moody’s e tre da Fitch.

A quanto ammonterebbero i titoli nei Fondi d’investimento ed ETF obbligazionari esteri? È estremamente difficile fare una stima precisa data l’alta frammentazione dei dati disponibili. Per avere un’idea dell’ordine di grandezza del potenziale delle vendite da parte degli investitori esteri abbiamo aggiornato una stima pubblicata nel 2012 da J.P. Morgan. Secondo i dati forniti da Bloomberg, l’ammontare del totale gestito (Asset Under Management, AUM) da Fondi chiusi, aperti e ETF obbligazionari a inizio agosto 2013 era pari a circa € 2260 miliardi (di cui i due terzi globali e un terzo europei); di questi si ipotizza che circa il 40% abbia come benchmark indici governativi sovrani. Utilizzando gli attuali pesi dell’Italia negli indici J.P. Morgan Government Bond Index (GBI) – pari al 6.2% nell’indice Global e al 22.5% in quello Uem – possiamo stimare che i Fondi d’investimento obbligazionari detengono in totale circa € 116 miliardi in titoli di Stato italiani.

Pertanto, nel caso di un declassamento dell’Italia a Speculative Grade potrebbe essere questo l’ammontare di titoli venduti dai Fondi ed ETF obbligazionari esteri come conseguenza del ribilanciamento degli indici governativi benchmark e dei meccanismi automatici che caratterizzano alcune tipologie di investimento. Tale flusso rappresenta una quota significativa, circa il 6.6%, del totale titoli di Stato italiani in circolazione, ma che in passato non ha avuto difficoltà ad essere assorbita dagli investitori domestici, tanto più che il processo potrebbe essere piuttosto graduale data la possibilità che i gestori vendano preventivamente parte dell’esposizione anticipando possibili downgrade. Tuttavia la situazione attuale non è così semplice: la quota di titoli detenuta dalle famiglie italiane, 10.6% sul totale in circolazione, è già tra le più elevate rispetto a quella delle altre famiglie dell’Uem; le banche italiane hanno già aumentato in misura considerevole la quota di titoli di Stato in portafoglio e potrebbero avere difficoltà ad incrementarla ulteriormente. La nostra stima riguarda comunque solo una quota contenuta di investitori esteri poiché non abbiamo elementi per fare una stima di possibili flussi in uscita per i restanti € 470 miliardi circa di titoli italiani (circa il 27% del totale) detenuti dalle banche estere, dai Fondi Pensione e dagli altri investitori che, al di là dell’attivazione di meccanismi automatici, saranno certamente penalizzati dal deterioramento della fiducia sul nostro Paese.

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