Israele attraversa una delle fasi più critiche della sua storia recente, sospeso tra conflitto permanente, emergenza democratica e una leadership sotto pressione. Teheran non è più un attore isolato. L’Europa cerca un difficile bilanciamento tra fermezza diplomatica e limiti strutturali di bilancio. Gli Stati Uniti affrontano un riorientamento del proprio impegno internazionale, mentre le promesse di risoluzione del conflitto ucraino si affievoliscono. Davanti a questa complessità, si impone una riflessione strategica che superi la logica dell’intervento reattivo. L’analisi di Raffaele Volpi
Nel cuore del Medio Oriente, Israele vive oggi un passaggio tra i più tesi e incerti della sua storia recente. Un conflitto senza tregua, una leadership forte ma contestata, una democrazia che funziona in stato d’eccezione, dove la prospettiva di nuove elezioni sembra accantonata in nome della sicurezza nazionale. Il governo di Benjamin Netanyahu ha definito con chiarezza il perimetro della sua azione: nessuna possibilità che un Paese ostile, a distanza ravvicinata, possa disporre di armamenti nucleari. Una dottrina che, pur in forme diverse, rappresenta da sempre la linea rossa strategica dello Stato di Israele. Non si tratta soltanto di autodifesa, ma di un principio di sopravvivenza nazionale, rafforzato da decenni di tensione con l’Iran. Dall’altra parte, Teheran continua a rappresentare Israele come un’entità illegittima, definendola “entità sionista”, e rifiutando ogni riconoscimento politico. Ma l’Iran non è una realtà marginale nel panorama globale. È una nazione antica, colta, con una popolazione di oltre 90 milioni di persone, un sistema educativo avanzato, una tradizione scientifica consolidata e una capacità tecnologica interna che le ha consentito di produrre e esportare armamenti in diversi teatri del mondo.
Non si tratta, dunque, di un attore isolato o imprevedibile, ma di uno Stato strutturato, dotato di visione strategica e radicamento culturale. Resta una domanda cruciale: quale sia oggi, realmente, l’orientamento profondo della popolazione iraniana. In un contesto dominato da strutture religiose e militari, spesso impermeabili al dissenso, è difficile misurare il peso delle spinte al cambiamento. Ma la presenza di una società civile vivace, urbana, tecnologicamente attrezzata, è un dato che merita attenzione. Le grandi trasformazioni, quando si verificano, partono quasi sempre da questi segmenti. In questo scenario complesso, l’Europa mantiene una postura coerente con la sua storia recente: sostegno convinto alla sicurezza di Israele, partecipazione attiva alle iniziative multilaterali, e un ruolo propositivo nel favorire percorsi diplomatici.
L’Unione Europea cerca una linea di equilibrio tra fermezza e dialogo, anche a fronte delle richieste crescenti di investimento in difesa avanzata. Ma qui emergono le differenze strutturali tra le economie che aderiscono al Patto di Stabilità – e sono quindi vincolate da regole di bilancio stringenti – e quelle esterne all’Unione, che dispongono di maggiore flessibilità nell’allocare risorse alla sicurezza. Gli Stati Uniti restano il riferimento cardine per la stabilità di Israele. Un rapporto costruito nel tempo, consolidato a livello politico, strategico, economico e culturale. In questo contesto, l’amministrazione Trump – insediatasi lo scorso anno con la promessa di restituire chiarezza e forza all’azione internazionale americana – si trova oggi di fronte a sfide aperte su più fronti. La questione iraniana non è soltanto una variabile di sicurezza, ma anche un banco di prova per l’autorevolezza americana nello scacchiere globale. La promessa di una rapida soluzione del conflitto in Ucraina, rilanciata nei primi mesi del nuovo mandato, appare oggi lontana. E proprio l’Ucraina sembra progressivamente uscita dal radar dell’attenzione internazionale. Se da un lato permangono dichiarazioni ferme sul sostegno a Kyiv, dall’altro cresce la percezione di una progressiva marginalizzazione. A oggi, è l’Europa – e in particolare alcuni Paesi – a mantenere una posizione più esplicitamente solidale con la causa ucraina.
Tutto questo mentre il sistema internazionale appare esposto a un insieme di tensioni incrociate, dove le priorità cambiano con rapidità e i conflitti si moltiplicano senza un ordine prevedibile. Il ritorno del confronto tra grandi potenze, l’incertezza energetica, il tema delle spese per la difesa, la fragilità delle catene di approvvigionamento, e ora la prospettiva di una nuova escalation mediorientale: ogni elemento contribuisce a ridisegnare la mappa delle alleanze e delle responsabilità. In questo contesto, ogni scelta va letta non solo alla luce degli obiettivi immediati, ma delle conseguenze di lungo termine. Una riflessione – sobria ma necessaria – merita anche l’esperienza storica degli interventi militari occidentali. Dal Vietnam all’Iraq, dalla Libia all’Afghanistan, la cosiddetta “esportazione della democrazia” non ha mai garantito risultati stabili. In molti casi ha prodotto effetti opposti a quelli attesi: frammentazione, radicalizzazione, regressione.
L’Iran, con la sua storia, la sua struttura sociale e la sua rilevanza geopolitica, non può essere assimilato a modelli precedenti. Serve allora uno sguardo più lucido e responsabile. Un’analisi che non si fermi al contingente, ma che provi a immaginare uno scenario condiviso, dove i protagonisti del sistema internazionale – Israele, Iran, Stati Uniti, Europa – possano riconsiderare le proprie scelte in funzione di un equilibrio più duraturo. Non si tratta di abbassare la guardia o di negare i rischi, ma di interrogarsi con serietà su ciò che rafforza la sicurezza e ciò che, invece, potrebbe minarla per decenni.