È bastato un soprannome (“daddy”) per riattivare una metafora potente, che Trump ha cavalcato fin dal principio: quella del padre severo, figura centrale nel suo lessico politico e nella sua strategia comunicativa. Solo che oggi quella metafora non basta più. E il contesto è radicalmente cambiato. L’opinione di Martina Carone
“Paparino a volte usa toni forti”, ha scherzato Mark Rutte accanto a Donald Trump, al summit Nato. Il premier olandese ha inteso sdrammatizzare. Ma Trump no. Ha rilanciato il siparietto su Instagram con orgoglio, come un’investitura. È bastato un soprannome (“daddy”) per riattivare una metafora potente, che Trump ha cavalcato fin dal principio: quella del padre severo, figura centrale nel suo lessico politico e nella sua strategia comunicativa. Solo che oggi quella metafora non basta più. E il contesto è radicalmente cambiato.
Nel 2016, Trump si presentava come il padre che rimette ordine dopo il caos. Il linguaggio era quello dell’autorità, della punizione, della protezione esclusiva: “Build the wall”, “Law and Order”, “Only I can fix this mess”. La famiglia-America era sotto assedio, e lui si offriva come patriarca implacabile. Ma con la pandemia e il caos istituzionale del post-2020, l’immagine si è incrinata. Il “padre forte” è apparso talvolta incapace di prendersi cura, negando la sofferenza o delegittimando i bisogni del Paese. Da lì in poi, Trump ha progressivamente irrigidito la figura paterna in una forma vendicativa e martire, concentrandosi più sul proprio ruolo ferito che sulla protezione degli altri.
La metafora del padre severo non è solo una trovata retorica: è una struttura cognitiva profonda, tipica dell’immaginario politico conservatore. Secondo il linguista George Lakoff, autore del saggio “Moral Politics”, la destra tende a concepire lo Stato come una famiglia tradizionale, in cui il padre rappresenta l’autorità morale, il garante dell’ordine, colui che premia l’autodisciplina e punisce il disordine. È un modello che parla all’inconscio, attiva frame mentali di sicurezza, gerarchia e responsabilità individuale, e rende più accettabili politiche dure, escludenti o punitive. Non si tratta solo di come si comunica, ma di come si pensa la politica: nel modello del padre severo, chi sbaglia paga, chi soffre probabilmente se lo merita, e lo Stato è lì per tenere in riga, non per abbracciare. È questo che Trump cerca di riattivare oggi, nella speranza che quella mappa mentale sia ancora intatta.
La crisi tra Israele e Iran è diventata un’occasione. Non solo geopolitica, ma narrativa. L’episodio con Rutte e il rilancio social non sono casuali: Trump ha bisogno di ridefinirsi. Non più solo l’uomo della rabbia o della vendetta, ma il padre in uniforme. Quello che guida la famiglia occidentale e che può dire con orgoglio di “aver riportato ordine tra gli alleati”.
È un’operazione di posizionamento: in patria, i sondaggi non lo aiutano. Secondo un recente sondaggio Ipsos/Reuters, il suo tasso di gradimento (“job approval”) è sceso intorno al 41%, con un 54% di giudizi negativi. I repubblicani moderati sono freddi sull’intervento in Iran. E anche dentro il blocco Maga, l’entusiasmo è meno granitico di quanto sembri: il NYPost registra che il 65% dei sostenitori di Trump più radicali approva i raid, ma tra il complesso degli elettori del partito repubblicano il dato scende sotto il 60%.
Trump i sondaggi li legge, e nonostante in molti lo considerino pazzo (e pazzoidi le sue esuberanze), sa che la figura del “padre severo ma giusto”, che interviene duramente ma solo dopo aver fatto sfogare i suoi “bambini”, funziona solo se è anche credibile come garante della sicurezza collettiva. Per questo cerca di rilanciare quella metafora nella forma più potente che conosce: la guerra. Perché niente dice “padre” come un comandante in campo, che ordina, decide, punisce. Un comandante in capo che parla di “brave persone”, riferendosi ad altri comandanti in capo come Zelensky.
La metafora del padre resta potente, ma non è eterna. E, se davvero l’intervento di Trump sarà in qualche modo risolutivo, il “paparino” dovrà trovare altri nemici e altre occasioni per giustificare i suoi toni forti: le recenti vicende, con il dispiegamento della Guardia Nazionale in California contro i manifestanti per i diritti degli immigrati, non lasciano presagire nulla di buono. Una volta esauriti i nemici esterni, Trump potrebbe essere tentato di cercare a tutti i costi un nemico interno con cui regolare i conti, anche attraverso l’uso della forza? La speranza è che questa tentazione possa apparirgli meno irresistibile di quanto temano alcuni osservatori.