Aprite le porte e fate squillare le trombe. Fate largo al nuovo che avanza e guai a chiamarlo con il nome di un bianco cetaceo: forse qualcuno dei presunti novelli dorotei potrebbe offendersi, ma certamente molti tra coloro che la fondarono nel 1942 lo prenderebbero come un insulto. Già, la Democrazia Cristiana: fosse ancora in vita, il grande Giulio Andreotti ci avrebbe sicuramente deliziato in queste ore con le sue celebri battute.
Magari, prendendone a riferimento una famosa, potremmo dire che il governo logora chi non riesce ad ottenerlo con il confronto democratico, nell’urna, ed allora è costretto ad affidarsi ad altre vie. Oppure che le larghe intese logorano i partiti, dato che condizione necessaria per la grande pacificazione di governo dovrebbe essere supportata dalla logica elementare di una necessaria intesa preliminare all’interno dei partiti che la sostengono. Tant’è, vivendo nel Balpaese dove ogni stravaganza politica è possibile in nome del benessere collettivo, salvo poi fare di tutto tranne che definire e comprendere chiaramente quale sia la ricetta giusta per raggiungerlo ‘sto benedetto benessere, di fatto ci si ritrova a distanza di mesi dalle ultime elezioni ancora con mille domande, molte dichiarazioni di buoni propositi, tante scuse, alcune giustificazioni ed un sostanziale poco di fatto.
Dopo una settimana convulsa, di votazioni di fiducia surreali, il teatrino romano sembra aver riaperto il sipario: da una parte si scalpita per la successione – ammesso ma non concesso che il monarca sia politicamente morto – dall’altra ci si interroga su cosa sia realmente accaduto, lanciando nel frattempo puerili appelli alla controparte affinchè abbandoni il leader al suo mesto destino.
Persino il saggio e capace Letta, gabbato all’ultimo minuto da Berlusconi, abbandona la cautela ed il suo proverbiale equilibrio con dichiarazioni frutto più di una malcelata frustrazione che di un convinto ragionamento politico. Ed il suo vice, Alfano, che conosce i difetti del Cavaliere ma ancor di più la sua tempra, le sue virtù e soprattutto il suo peso presso l’elettorato di riferimento, esibisce davvero il proprio quid intelligente bloccando sul nascere ogni interferenza esterna nelle vicende del partito, così come, all’interno, ha saputo sia spegnere i bollori di quattro gatti separatisti in cerca di gloria e rinnovata ribalta personale, sia la follia di alcuni cortigiani preoccupati più del loro destino che dell’interesse del leader.
Vedremo nei prossimi giorni se il governo Letta, quella che ho sempre pensato fosse la miglior soluzione nella peggiore delle situazioni possibili dopo il voto di febbraio, sarà un governicchio di sola facciata, ovvero una cortina fumogena che maschera ben altri obiettivi di nuovi scenari centristi e paludosi, oppure si rivelerà davvero un governo del fare, consapevole della necessità di andare in Europa a chiedere maggiore flessibilità in cambio di un serio programma di tagli e riforme. Confido nella seconda, speranzoso ed ottimista nell’attesa che si prenda poi consapevolezza della necessità di cambiare le regole per arrivare, finalmente direi, ad un sano e vero bipolarismo dell’alternanza – e di premier – che possano davvero governare senza subire inevitabili stop and go da maggioranze frutto di sterili alleanze elettorali e delle tragiche e tafazziane contingenze post voto. Solo allora potremo parlare seriamente di crescita e benessere collettivo, valutando prima le diverse ricette e poi, una volta scelto il menù proposto dai partiti, lasciare che lo chef possa cucinare il piatto senza che nessuno si affanni continuamente a spegnere il fornello durante la cottura. E se il piatto non dovesse poi piacere? Semplice, si cambiano sia il menù sia lo chef.