È solo grazie al continuo sostegno economico e politico di Pechino che Putin può continuare la sua guerra. E l’interesse di Pechino si spiega in un unico modo: l’attesa del riconoscimento da parte della comunità internazionale dei territori conquistati con la forza dalla Federazione russa, per scatenare l’assalto contro Taiwan. L’analisi di Paolo Alli
Se i contenuti del vertice di Anchorage si devono desumere dalla finta conferenza stampa di Putin e Trump, c’è ben poco di cui rallegrarsi.
Né pare che migliori notizie ci si debbano attendere dai “passi avanti” successivamente annunciati, se è vero che uno stranamente silenzioso Trump affida a Rubio la dichiarazione più impegnativa e, probabilmente, più veritiera: “Siamo ancora lontani, non siamo sull’orlo di un accordo di pace”.
Si è confermato come lo scopo vero del vertice fosse la legittimazione reciproca tra i due presidenti, dalla quale ha sicuramente tratto molto più giovamento Putin, riammesso, almeno come immagine, nel club dei grandi. Con l’esito che, se vi venisse reinserito anche formalmente, verrebbe meno l’unica vera arma per far finire la guerra: il fallimento definitivo dell’economia russa.
L’unico dato significativo per Trump è stato l’endorsement di Putin, secondo il quale se lo stesso Trump fosse stato presidente nel 2022 la guerra non avrebbe avuto inizio (tema caro alla narrativa trumpiana). Questo ha portato acqua al mulino della ambizione-ossessione di Trump di ricevere il premio Nobel per la pace.
Una mossa, come sempre azzardata, attraverso la quale spera di affrontare le elezioni di mid-term tra poco più di un anno avendo qualcosa da offrire al popolo americano, a compensazione dei negativi dati economici interni, conseguenza soprattutto della sua politica dei dazi.
Al di là di questo, ben poco, se non la posizione chiaramente ribadita dallo stesso Putin che per parlare di fine della guerra bisogna andare alle cause della guerra stessa: detto in altri termini, mettere in discussione l’esistenza stessa dell’Ucraina, che può sopravvivere solo se ridotta, demilitarizzata, e con un cambio di regime.
Quanto al significato della “garanzia di sicurezza” per l’Ucraina stessa, evocata da Putin, c’è da tremare, nonostante le successive precisazioni di Trump su un possibile (secondo me improbabile) accordo simil-Nato.
Una amara considerazione sulle tre principali vittime designate: l’Ucraina, l’Europa e il multilateralismo. Sul destino della prima, non vi era nessun dubbio: resterà da capire cosa ne pensa il popolo ucraino.
Sul multilateralismo, neanche un accenno alle Nazioni Unite ormai completamente delegittimate dal ritorno di una politica unicamente bilaterale, né ai principi cardine del diritto internazionale, ripetutamente e continuamente violato.
Riguardo all’Europa, l’unica citazione è stata quella di Putin che le ha sostanzialmente detto “non metterti di traverso”.
Personalmente leggo questo dato in modo contrario rispetto alla gran parte degli osservatori di casa nostra: è facile, infatti, dire che l’Europa è irrilevante, come sostengono i filo putiniani e i populisti di destra, centro e sinistra, mentre a mio modesto avviso questo è un segnale del timore che accomuna lo zar e il tycoon rispetto alla forza dell’Europa.
Essa ha espresso una posizione comune politica ben chiara su Ucraina e Israele, rimane la seconda economia mondiale ed è il primo partner del quale gli Usa non possono fare a meno (e viceversa). In questo senso saranno determinanti i colloqui di Washington e le successive trattative, probabilmente né brevi né semplici.
Pur con l’accortezza di non rompere il legame transatlantico, della quale si fa giustamente portavoce Giorgia Meloni, sarà importante che i leader europei mantengano la propria compattezza.
Putin che, come purtroppo afferma Macron, non vuole la pace, sa benissimo che il tempo gioca a suo favore, non solo sul campo di battaglia, ma anche grazie alla crescente stanchezza dell’opinione pubblica occidentale, che potrebbe erodere il consenso che ancora resta verso il sostegno a Kyiv.
Un’ultima considerazione sulla vera assente: né l’Ucraina né la Ue, ma la Cina. È solo grazie al continuo sostegno economico e politico di Pechino che Putin può continuare la sua guerra. E l’interesse di Pechino si spiega in un unico modo: l’attesa del riconoscimento da parte della comunità internazionale dei territori conquistati con la forza dalla Federazione russa, per scatenare l’assalto contro Taiwan.
Tra le varie amenità del nostro dibattito pubblico, si è detto che quella in Ucraina è una guerra per procura, provocata dagli Usa e dall’Occidente, Sono sempre stato propenso a credere che, se di guerra per procura si tratti, il mandante sia la Cina.
In questo senso, la vera merce di scambio per la fine della guerra in Ucraina, che l’Occidente si troverebbe a dover digerire, consenziente o no, potrebbe essere proprio un sostanziale via libera alla Cina sulla conquista di Taiwan.
Questo è, infatti, il vero scopo strategico della presidenza Xi-Jinping, sia dal punto di vista dell’immagine (la ricostruzione della grande Cina, non dissimile rispetto alle ambizioni imperiali di Putin), sia sul piano economico.
Una Cina che controlli il mercato mondiale dei semiconduttori e lo stretto di Taiwan, dal quale passa il 90% delle grandi porta-container mondiali, avrebbe in mano il mondo.
Per questo è fondamentale che si mantenga ancora quel briciolo di rispetto del diritto internazionale, che garantisca almeno l’inviolabilità dei confini di uno Stato sovrano, diritto che sembra ormai carta straccia nelle mani dei due avversari-amici di Anchorage.
Un difficile compito, che solo l’Europa può svolgere.