Accordi tardivi e faticosi hanno una conseguenza strategica molto netta: campagne elettorali sempre più brevi, spesso concentrate in poche settimane, e un calendario spezzettato che rinuncia all’election day compatto. Una frammentazione che diventa fattore politico a tutti gli effetti. Il commento di Martina Carone
La polemica era nell’aria: è la prima settimana di settembre 2025 e ancora non è chiaro quando si voterà in tutte le regioni. Ma è proprio questa incertezza a dirci molto di come si voterà. Da anni la politica italiana ha un problema con il tempo: le trattative sui candidati si allungano, riflettendo rapporti di forza sempre più mobili. Dove un tempo la Lega dettava la linea, oggi FdI chiede spazi; dove il Pd era egemone, figure al suo interno vogliono contare. Accordi tardivi e faticosi hanno una conseguenza strategica molto netta: campagne elettorali sempre più brevi, spesso concentrate in poche settimane, e un calendario spezzettato che rinuncia all’election day compatto.
C’è la “polverizzazione” del voto. Valle d’Aosta il 28 settembre, Marche il 28-29, Calabria il 5-6 ottobre, Toscana il 12-13 ottobre. Poi, presumibilmente a novembre, Veneto, Campania e Puglia. Una sequenza che impedisce di leggere le regionali come un test nazionale compatto. Non ci sarà un unico tabellone finale da cui trarre un verdetto chiaro, ma tante partite locali slegate nel tempo e nel racconto mediatico. Sarà quindi difficile parlare di “test nazionale” per il governo. E per il governo questo è un bene.
In questa tornata elettorale si prefigura infatti una predominanza del centrosinistra, con alcune regioni dove i candidati del campo largo godono di un prevedibile vantaggio: Toscana, Campania, Puglia. Però, ammesso (e non concesso) che alla fine questa tornata produca un esito nettamente favorevole al centrosinistra, sarà difficile per Elly Schlein rivendicarlo efficacemente: potrebbero essere passati ormai due mesi dalla prima consultazione (le Marche, a fine settembre, che sembrano la partita più aperta) e tutta l’agenda pubblica sarà prevedibilmente dominata dalla legge di Bilancio.
Ma il centrodestra non è immune dagli effetti negativi. Se c’è una cosa che dalle parti della maggioranza sanno, è che una campagna breve (come sono destinate a essere quelle per queste regionali) sbilancia il campo: favorisce chi è già riconoscibile, il volto noto, il leader rodato, la figura già conosciuta, e penalizza chi deve ancora conquistare attenzione.
Questo è anche uno dei motivi per cui l’individuazione dei candidati si sta mostrando sempre più complessa (l’altro è squisitamente politico: chi pesa di più sceglie il candidato, e in cinque anni i rapporti di forza tra Lega e FdI si sono ribaltati). Forse anche questa è la ragione per cui, con buone probabilità, in alcuni territori si ricorrerà al fantomatico “candidato della società civile”: per evitare di bruciare un nome di prima fascia, costretto a giocare la partita in un contesto di poca rilevanza nazionale e con una campagna dai tempi brevi.
E che si preannuncia rumorosa: nelle campagne che durano poco, con poca visibilità e poca notorietà, o si riesce a sparare proposte forti, polarizzanti, capaci di rompere l’agenda, oppure si resta fuori. Non è un caso se molti outsider scelgono la provocazione più che la mediazione: serve un detonatore narrativo, non un dettaglio programmatico. Cosa che riesce bene se l’obiettivo sottinteso, viste le premesse, non è vincere, ma partecipare. E non solo: col nome della società civile, si può evitare di pesarsi eccessivamente, evitando di inasprire le divisioni interne alla maggioranza.
Così, anche un’eventuale sconfitta del centrodestra in una delle regioni non potrà risuonare come segnale politico diretto verso il governo. Non c’è il “giorno X” in cui si misura la temperatura del Paese, ma una serie di appuntamenti che spezzano l’attenzione pubblica. La narrazione nazionale, in pratica, evapora. E se non c’è il candidato del governo, sintesi di rapporti di forza mutati e discussi apertamente (o aspramente), non c’è la batosta al governo.
Il calendario, così frammentato, diventa allora un fattore politico a tutti gli effetti: non è successo, è stato evitato. Evitata la prova unica sul governo, evitato il frame del voto come referendum sull’esecutivo. Non un dettaglio tecnico, ma la fotografia di una politica che sceglie la sopravvivenza alla prova di forza.
Non a caso, Antonio Tajani ha ribadito che il centrodestra “non è un accordo elettorale ma una coalizione politica”, unito dal 1994 e ancora destinato a durare. È una dichiarazione che vuole rafforzare il marchio della coalizione, evocando la dimensione storica e identitaria proprio mentre il calendario frammentato sottrae terreno a un racconto nazionale compatto. Ma dietro la retorica dell’unità resta il nodo più concreto: la difficoltà di trovare candidati di livello, in grado di reggere partite locali che non hanno la forza di trasformarsi in test politici sul governo. Non è un dettaglio: lo si è visto già nelle grandi città (Roma, Milano, Torino) dove la coalizione si è spesso fermata davanti all’assenza di figure forti da spendere.