Mentre i sondaggi mostrano che la maggioranza degli italiani simpatizza per Gaza, la premier mantiene distanza e tono rigido, per rafforzare la credibilità internazionale dell’Italia. Parla più a Bruxelles e Washington che al Paese, sacrificando consenso interno per mostrarsi leader affidabile e atlantica. In un contesto di forza domestica e opposizioni deboli, può permettersi di privilegiare la scena esterna, anche se la mobilitazione civile resta un segnale politico da non ignorare. L’analisi di Martina Carone
Una maggioranza di italiani è solidale con la Flotilla e con il popolo palestinese, ma il governo resta prudente. Perché la premier sceglie di parlare all’esterno più che al Paese. Le piazze italiane si sono riempite come non accadeva da decenni per un tema di politica estera. La Flotilla per Gaza, le bandiere, gli appelli alla pace: migliaia di persone scese in strada per chiedere aiuti umanitari e fine delle violenze. Eppure, a fronte di un’opinione pubblica largamente solidale con Gaza, il governo ha scelto la linea della cautela e della distanza.
Secondo le ultime rilevazioni, una stragrande maggioranza di italiani (in alcuni sondaggi, circa il 70%) si dichiara favorevole all’iniziativa della Flotilla. Con differenze tra le diverse fazioni politiche: Tra gli elettori di centrosinistra l’appoggio sfiora il 90%, mentre tra quelli di centrodestra prevale la divisione. In generale, ogni ricerca restituisce la stessa fotografia: le opinioni positive sulla missione sono nettamente più numerose di quelle negative, con un netto capovolgimento del rapporto nei due elettorati.
Sulle piazze, gli italiani si mostrano più divisi. Per Only Numbers, l’istituto di Alessandra Ghisleri, il 44% le giudica complessivamente pacifiche, ma un terzo le ritiene “violente o improntate alla violenza”. Solo il 27% pensa che abbiano avuto un impatto positivo sulla politica, mentre il doppio (55%) le considera dannose o inutili.
Nel quadro politico, la distanza tra toni e ruoli è evidente. Meloni parla di “iniziativa irresponsabile” e di “strumentalizzazione politica”, mantenendo una postura rigida e sovranista; Tajani e Crosetto, al contrario, scelgono un linguaggio più istituzionale: il primo diplomatico, il secondo operativo, attento alla tutela dei cittadini.
È un’inversione dei ruoli classici: una premier più incendiaria e due ministri pompieri. Un paradosso solo apparente, se si considera che la prudenza strategica verso gli alleati internazionali richiede, sul piano interno, una narrazione di fermezza. E allora forse la distanza tra le piazze e Palazzo Chigi non è solo una questione di sensibilità, ma di strategia.
Le persone scendono in strada per dare voce a un sentimento; Giorgia Meloni sceglie di non assecondarlo per non indebolire la propria posizione nel mondo. In un contesto in cui l’Italia viene osservata come il test di una destra “affidabile” agli occhi degli alleati, ogni parola sulla guerra pesa più a Bruxelles o a Washington che nei sondaggi domestici.
Criticare le manifestazioni, in questo senso, non è disprezzo ma calcolo: serve a ribadire che l’Italia resta prevedibile, atlantica, coerente. Che la premier parla da leader occidentale, non da militante di piazza. È il classico two-level game descritto da Robert Putnam: ogni leader gioca due partite, una internazionale e una interna. Meloni ha scelto di vincere quella esterna (preservando la credibilità dell’Italia nel sistema occidentale) anche a costo di perdere qualcosa su quella domestica.
Un equilibrio rovesciato rispetto al passato, in cui i premier cercavano consenso a casa e compromesso fuori: oggi la stabilità internazionale è la vera moneta del potere. E poi, va detto, la scelta di Meloni è anche il frutto della forza che ha in casa: sul piano interno le va già bene così, con il suo partito che – secondo l’ultima supermedia YouTrend – rimane stabile al 30%.
Non ha vere alternative politiche, né opposizioni in grado di metterla in difficolta: può quindi permettersi di spostare il baricentro sul piano internazionale, dove si gioca la legittimazione della sua destra di governo: rispettata fuori, dominante dentro.
Resta però il dato politico di fondo: era da decenni che in Italia non si vedeva una mobilitazione di piazza così ampia su un tema di politica estera. E anche se difficilmente questa partecipazione si tradurrà in voto, è un segnale di attivazione civile con cui la premier, prima o poi, dovrà fare i conti.
Per ora, sceglie di guardare altrove, ma le piazze restano lì, ponendo un grande interrogativo: le bandiere e gli slogan e i cori si trasformeranno in voti?