La visita del ministro degli Esteri di Pechino mette alla prova l’equilibrio strategico italiano in un momento di tensioni globali, ricalibrature europee e transizioni industriali. L’analisi di Enrico Fardella, professore dell’Università di Napoli L’Orientale, direttore del progetto ChinaMed e Adjunct Professor alla Johns Hopkins University Sais Europe
L’arrivo di Wang Yi – direttore dell’Ufficio della Commissione Centrale per gli Affari Esteri del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese (PCC) e ministro degli Esteri della Repubblica Popolar Cinese – a Roma il 7 ottobre per co-presiedere con Antonio Tajani la dodicesima riunione del Comitato Intergovernativo Italia-Cina, porterà con sé molto più di un’agenda bilaterale. La visita segna un momento cruciale: dopo l’uscita dalla Belt and Road Initiative, il Paese sta cercando di ridefinire la sua relazione con Pechino. Questa nuova cornice diplomatica è però complicata da guerre commerciali in corso, da crisi regionali persistenti e da un riposizionamento geopolitico globale in cui i movimenti strategici di Washington, Bruxelles e Pechino si fanno sempre più competitivi.
L’incontro dell’8 ottobre a Villa Madama non è dunque mera routine diplomatica: segue la visita di Giorgia Meloni a Pechino del luglio 2024 e la firma di un Piano d’Azione triennale che mira a promuovere una fase più funzionale dei rapporti bilaterali, basata su cooperazione settoriale e gestione chirurgica dei dossier sensibili. Il pragmatismo, tuttavia, in geopolitica è un esercizio di equilibrio dinamico: l’Italia cammina su un filo teso tra la lealtà atlantica, i vincoli europei e le opportunità industriali evocate dalla cooperazione con la seconda economia del pianeta; la performance di questi giorni sarà dunque misura del valore di questa postura.
L’inasprirsi delle tensioni commerciali è ormai un elemento dirompente nel panorama globale. Dagli Stati Uniti, si sono registrati irrigidimenti tariffari diretti contro settori chiave come i veicoli elettrici e i semiconduttori cinesi. Parallelamente, a Bruxelles, la Commissione Europea ha consolidato la sua indagine anti-sovvenzioni sui veicoli elettrici di Pechino, aprendo di fatto la strada all’imposizione di dazi che potrebbero ridisegnare l’intera catena del valore automotive in Europa. La risposta cinese non si è fatta attendere, concretizzandosi in contromisure mirate (ad esempio su segmenti come gli alcolici o prodotti agroalimentari specifici). Questa tattica ha lo scopo di ricordare ai partner europei che la leva commerciale di Pechino può colpire in modo selettivo settori-simbolo e geografie politicamente sensibili del continente.
L’Italia sta nel mezzo: deve dare sostanza al de-risking europeo – ridurre dipendenze critiche, proteggere le filiere strategiche, schermare investimenti in tecnologie sensibili – senza chiudere la porta a capitali e competenze dove il vantaggio comparato italiano è ancora apparentemente solido (componentistica, macchinari, materiali avanzati etc.). Con una congiuntura deteriorata e scenari di crescita più deboli del previsto, ogni passo falso può tradursi in riduzione dell’occupazione, interruzione dei flussi commerciali e value-chain riallocate altrove. Il messaggio verso Wang Yi va quindi calibrato con precisione: da una parte, i tradizionali richiami critici di rito – sulla scia europea – sulla reciprocità negli accessi al mercato cinese, una tutela effettiva della Proprietà Intellettuale (IPR) e l’applicazione di standard di trasparenza sugli investimenti. Dall’altra, maggiore disponibilità al co-sviluppo industriale ossia ad attrarre investimenti cinesi che non siano semplici acquisizioni o speculazioni, ma che generino valore aggiunto tangibile – come occupazione, innovazione e nuove filiere produttive – direttamente sul territorio italiano.
È un messaggio molto difficile da calibrare, ma è l’unico compatibile con la posizione geopolitica del Paese al confine di crisi regionali come quelle ucraina e mediorientale. Sul fronte Ucraina, le posizioni di Roma e Pechino sembrano sempre più distanti. La Cina continua a presentarsi come mediatore neutrale, favorevole a negoziati e a una soluzione politica, ma di fatto sostiene politicamente ed economicamente Mosca nello sforzo bellico. L’Italia, allineata con l’Ue e la Nato, chiede a Pechino fatti e non solo formule: controlli efficaci sui trasferimenti di tecnologie e beni dual-use che potrebbero raggiungere la Russia attraverso canali indiretti, aggirando le sanzioni occidentali. È un test – probabilmente insostenibile – per la narrativa cinese di “mediatore responsabile” e un discrimine per la coesione europea: senza chiarimenti operativi la permeabilità tra dossier sicurezza e dossier economico aumenterà, e con essa il rischio di attriti che nessun attore industriale vorrebbe.
Più sfumato, ma altrettanto rilevante, è il dossier mediorientale. Su Gaza e sull’escalation tra Israele e Iran, Italia e Cina condividono alcuni obiettivi tattici: entrambe sostengono la necessità di un cessate il fuoco, di corridoi umanitari e della prospettiva dei due Stati, oltre a invocare moderazione e de-escalation regionale. Le differenze sul piano retorico permangono. Roma ha condannato l’attacco di Hamas, riaffermato il diritto di autodifesa di Israele — pur criticando la sproporzione della risposta — e si muove nei confronti di Teheran all’interno della cornice euro-atlantica, con sanzioni mirate e controlli sulle esportazioni. Pechino, al contrario, ha chiesto un cessate il fuoco immediato, criticato apertamente Israele e Stati Uniti in sede Onu, sostenuto il riconoscimento dello Stato di Palestina e, sul fronte iraniano, posto l’accento sulla tutela della sovranità di Teheran, assumendo toni apparentemente più sbilanciati verso la Repubblica islamica. Tuttavia, al di là della retorica, la posizione cinese appare in realtà più “laica” e pragmatica: il divario tra le indignazioni espresse nei fori internazionali e la scarsità di azioni concrete a favore della Palestina o di misure punitive contro Israele, unito al progressivo ribilanciamento dei rapporti con Teheran a vantaggio dei Paesi del Golfo e dell’Arabia Saudita — attori vicini all’Italia e centrali per la stabilizzazione regionale — apre spiragli di dialogo inediti. Se formalmente lo spazio di cooperazione tra Roma e Pechino potrebbe limitarsi a interventi umanitari e alla gestione tattica della de-escalation, al di sotto della superficie retorica potrebbero profilarsi combinazioni più originali sullo scenario mediorientale.
Un elemento di contesto che non va sottovalutato è la crisi di governo francese. Con Emmanuel Macron sotto pressione e Parigi paralizzata politicamente, la leadership europea sul dossier Cina si è indebolita. La Francia era stata tra i falchi sulla difesa industriale (sul dossier delle auto elettriche ad esempio) ma ora ha meno margini per guidare il dibattito UE diviso tra linea assertiva e cooperazione selettiva. Il vuoto lo potrebbero colmare la Commissione e altri Stati membri (Germania in primis), con una gestione più “tecnica” dei dossier. Per l’Italia, questo significa più spazio di manovra, ma anche più responsabilità: Roma non può più limitarsi a seguire l’asse franco-tedesco, deve proporre una linea autonoma e credibile. La visita di Macron a Pechino, che era in preparazione per il 2025, potrebbe dunque slittare. Anche questo conta: meno “politica” francese in prima linea su Cina-UE per qualche mese, più gestione comunitaria dei dossier commerciali. E più peso relativo per l’Italia, che può giocare un ruolo di ponte pragmatico tra Occidente e Cina, a patto di mantenere la coerenza tra dichiarazioni pubbliche e azioni concrete.
All’interno di questa cornice, tre dossier industriali permettono di comprendere in profondità la postura italiana. Il primo, emblematico, è quello di Pirelli. Il 30 settembre il governo ha stabilito che Sinochem, azionista cinese con una quota del 37%, non ha violato le prescrizioni imposte con l’esercizio dei poteri di golden power nel 2023. In primo luogo, come ha scritto Francesco Galietti — docente di political risk analysis alla LUISS e fondatore dell’osservatorio Policy Sonar — il contesto Usa-Cina è cambiato. È una scelta di equilibro. Nel 2025 i negoziati tra Washington e Pechino su TikTok, semiconduttori e altre questioni tecnologiche hanno modificato il quadro: la linea italiana potrebbe riflettere equilibri negoziati altrove, con gli Stati Uniti meno interessati a forzare la mano su un dossier secondario come Pirelli. In secondo luogo, la pressione europea su Roma è aumentata. La Commissione ha messo sotto esame l’uso del golden power nel caso UniCredit-Bpm, sollevando dubbi su giustificazioni di sicurezza. Con Bruxelles più vigile, dice Galietti, Roma ha scelto di non spendere ulteriore capitale politico su Pirelli, concentrandosi su altri fronti (come il fotovoltaico, dove le restrizioni su componenti cinesi sono state inasprite). In terzo luogo, c’è un tema di coerenza interna: China State Grid detiene circa il 35% di Cdp Reti, che controlla asset davvero critici come Snam, Italgas e Terna. Un’escalation contro Sinochem avrebbe aperto interrogativi scomodi su quella presenza, molto più strategica di Pirelli.
Il secondo dossier riguarda Byd, banco di prova per capire se l’Italia saprà attrarre investimenti di qualità nell’automotive – cinese – del futuro. Al momento non è stato annunciato alcun investimento greenfield, ma l’Italia resta nella short list per una possibile base europea mentre il gruppo rafforza la sua presenza in Ungheria e Turchia. La decisione su un impianto in Italia dipenderà da incentivi credibili ma soprattutto da un contesto competitivo: certezza normativa, qualità del capitale umano, logistica efficiente, tempi autorizzativi rapidi e prevedibilità delle regole europee.
Il terzo dossier riguarda Haier, che sta seguendo una strategia diversa ma complementare. A Brugherio, l’azienda ha avviato la trasformazione dello storico impianto Candy-Hoover in un hub logistico automatizzato. Non è un nuovo investimento produttivo, ma un progetto di lungo periodo che rafforza la presenza in Italia e modernizza la catena di servizio. Per il Paese significa mantenere e aggiornare competenze e valorizzare la logistica avanzata come parte della competitività industriale.
Sia nel caso di Haier, che in quello potenziale di Byd, Il Comitato Intergovernativo può diventare un vero strumento di micro-ingegneria normativa capace di rendere l’Italia più attrattiva e competitiva.
Cosa aspettarsi, allora, da questa visita? Meno fuochi d’artificio e più meccanica di precisione: procedure più rapide per certificazioni e diritti di proprietà intellettuale, un lessico condiviso sul de-risking che aiuti le imprese a pianificare investimenti e forniture. Roma ribadirà parità di condizioni e gestione responsabile dei dossier sensibili; Pechino insisterà sul “no al protezionismo”, sulla disponibilità a investire e sulla narrativa del proprio ruolo costruttivo nelle crisi globali.
In questo quadro, la sequenza politica di ottobre assume un valore strategico evidente. Il Consiglio europeo, un possibile incontro Meloni–Trump in occasione del cinquantesimo anniversario del Niaf a Washington e il vertice Apec in Corea del Sud, dove potrebbe tenersi un bilaterale tra Donald Trump e Xi Jinping, scandiscono una serie di tappe ravvicinate di rilevante importanza. In mezzo a questi appuntamenti, l’obiettivo più realistico per l’Italia non è tanto quello di imprimere svolte radicali quanto piuttosto, come dimostra il caso Pirelli, di ridurre i rischi: consolidare canali di dialogo – e magari esplorarne di nuovi – mantenere margini di manovra in un contesto fluido e contenere eventuali turbolenze derivanti da nuove dinamiche tra Stati Uniti, Cina e Unione Europea.
La vera prova arriverà nei mesi successivi, quando dalle parole si passerà ai fatti. Sarà importante vedere se Pirelli resterà un caso di sovranità gestita senza scontri, se l’Italia saprà proporsi a Byd e a Haier come un ecosistema solido e competitivo e se la variabile francese potrà aprire a Roma più spazio di influenza nei processi europei, senza scivolare nell’improvvisazione.
Se da un lato è legittimo sperare dunque che l’Italia riesca finalmente a trasformare il de-risking europeo in un vero vantaggio competitivo, è altrettanto comprensibile dall’altro temere che questa visita possa passare alla storia come un’altra occasione mancata, in un momento in cui Stati Uniti e Cina plasmano i profili delle filiere strategiche del futuro.
Il prof. Enrico Fardella sarà tra i protagonisti dell’evento “Turning Tides? The future of EU-China relations” organizzato dalla Johns Hopkins Sais e dall’Università di Bologna, che il 27 e 28 ottobre porterà nel capoluogo emiliano esperti internazionali e di cui Formiche.net sarà media partner.