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Collaboratori di giustizia, una cultura da cambiare

Quando l’aereo atterra a Palermo, la consapevolezza di esser sospesi tra la vita e il mare provoca sempre una grande emozione. Ma ancor prima dell’uscita dall’aeroporto non ci si sottrae alle battute dei turisti che chiedendo informazioni trovano sempre il modo di nominare la Mafia. Il 9 maggio, atterrando a Palermo l’insofferenza verso queste battute si è trasformata in una forma di rabbia.
 
La rabbia nei confronti dei luoghi comuni, privi di storia, privi di memoria, privi di cultura. Il 9 maggio per gli italiani è una data da ricordare, su cui saremo sempre chiamati a riflettere. Nella notte del 9 maggio 1978 morivano assassinati Peppino Impastato e Aldo Moro. Palermo è la terra di Peppino Impastato, ucciso dalla Mafia, nato a Cinisi da un padre mafioso, ripudiato da Peppino, che della denuncia di Mafiopoli fece il manifesto del suo impegno. Il 9 maggio 1978 moriva per mano delle Brigate Rosse Aldo Moro, presidente del più grande partito in Sicilia, la Democrazia Cristiana, partito che ha saputo dominare la politica e convivere devotamente con la Mafia.
 
Dopo 34 anni da questi tragici eventi, a Palermo un parroco si è rifiutato di dire una messa in onore di Peppino Impastato, presenza ancora oggi scomoda che con la vita ha cercato di sdoganare la cultura dell’omertà.
 
Il problema non è Palermo o la Sicilia, ma la volontà di incidere per cambiare questa cultura incancrenita che aiuta il prosperare della criminalità così come della corruzione. Siamo un popolo abituato al sangue. Col sangue Pio la Torre, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino hanno pagato con la vita l’impegno e lo sviluppo normativo sui beni confiscati alle mafie e sulla protezione dei collaboratori di giustizia. Ma la memoria sta all’onestà come la cultura sta all’impegno. Una proporzione di cui l’Italia ha voluto fare a meno, preferendo tutt’altri equilibri ed elevando a dogma revisionismi e tabù.
 
A cavalcare l’onda è un vasto esercito di corrotti e collusi, o semplicemente tutti coloro che vi solidarizzano per amicizia o per interesse. Ma il tabù è tale che anche i tecnici al di sopra di ogni sospetto si mostrano pavidi nell’affrontare il tema dei whistleblowers o più generalmente dei collaboratori di giustizia.
La prima relazione della Commissione anti-corruzione, istituita dal Ministro Patroni Griffi, si è presa la briga di inserire nella proposta di decreto norme relative alla protezione dei whistleblowers, ma nonostante l’apparente buona volontà, il testo è scarso e non dotato di incisività a largo raggio. La proposta all’art.4 “prevede a tutela del dipendente che lo stesso non possa essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria. Si prevede l’obbligo di segretezza dell’identità del segnalante e un regime specifico di segnalazione dell’adozione di misure discriminatorie al Dipartimento della funzione Pubblica”.
 
L’art. 4-bis prevede che “a chiunque segnala all’autorità giudiziaria o alla Corte dei Conti condotte illecite che cagionano danno erariale o all’immagine della pubblica amministrazione, spetta un premio in denaro non inferiore al 15 e non superiore al 30 per cento della somma recuperata a seguito della segnalazione. Ai fini della determinazione di detta somma si tiene conto del contributo attivo di colui che ha segnalato la condotta illecita. [..] in ogni caso la somma spettante a titolo di premio non può eccedere i due milioni di euro.”
 
Innanzitutto, una proposta parziale che non mina i patti illeciti dei grandi corrotti. Infatti, la soglia massima dei due milioni di euro non darà alcun incentivo a denunciare i giganteschi traffici d’affari che girano intorno ai grandi appalti. La storia di Mani Pulite ci insegna che il “sistema Chiesa” prevedeva in media il 10% del valore dell’appalto come tangente. Mantenendo per semplicità che le tangenti corrispondono al 10% dell’affare bisognerà valutare l’efficacia di tale proposta al netto delle transazioni di grandi importi, superiori ai 20 milioni di euro, ad esempio quelle che negli ultimi anni hanno caratterizzato gli scandali P3 e P4, per intenderci.
 
Gli sconti normativi a favore dell’illegalità sono simili a una svendita. L’art. 4 della proposta prevede la tutela per i dipendenti pubblici, escludendo quindi tutti i dipendenti privati seppure a conoscenza di illeciti. Questo dettaglio o svista non riduce soltanto l’incisività dell’art.4, dato che l’introduzione del reato di corruzione tra privati non potrà contare sull’integrità e la voglia di giustizia di tutti quegli italiani e non impiegati nel settore privato. Ancora una volta, l’Italia o chi per lei gode nel vedere proliferare gli interventi legislativi senza assumersi la responsabilità di un cambiamento.
 
Dell’auto-isolamento dei vertici si trova traccia anche nell’ultima parte di questa norma che prevede l’istituzione “presso il Dipartimento della funzione pubblica di un ufficio per la ricezione delle segnalazioni”. Non viene così preso in considerazione l’impegno che ad oggi viene svolto dalla più grande rete culturale presente attivamente nel nostro paese, Libera, che da più di un anno ha istituito il servizio S.O.S Giustizia, un servizio di ascolto e assistenza per le vittime della criminalità organizzata, sparso sul territorio nazionale piuttosto che celato dietro un numero verde o un distante indirizzo di posta elettronica.
 
Siamo dunque destinati ad atterrare a Palermo ancora per molti mesi forse anni, ascoltando le provocazioni e il sarcasmo dei turisti, senza poterli sorprendere con una cultura in cambiamento, con un territorio che, non più schierato dalla stessa parte, sia forte della collaborazione attiva con le istituzioni, creando e sostenendo una nuova cultura.

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