Dalla psicologia cognitiva alla disinformazione, la manipolazione delle percezioni vuole catturare l’attenzione e orientare rabbia, confusione, dissenso e paura. Tra social network, canali televisivi e bolle di opinione, messaggi ripetuti e narrazioni emotive si intrecciano per modellare la percezione pubblica e ciò che la cittadinanza ritiene vero o possibile
Dietro il fumo degli slogan e delle immagini virali si articola una struttura raffinata, fondata su decenni di studi psicologici e neuroscientifici. Comprendere come funziona la manipolazione delle percezioni significa capire come si forma, e come si governa, anche l’opinione pubblica.
Ogni messaggio persuasivo segue un percorso preciso. Prima di tutto, deve catturare l’attenzione, perché un messaggio ignorato è, per definizione, un fallimento.
Una volta catturata l’attenzione, deve essere semplice, comprensibile e facilmente metabolizzabile. Solo quello che la mente riconosce come familiare può essere accettato come vero. Infine, la comunicazione efficace diventa guida comportamentale, capace di trasformare lo stimolo esterno in impulso d’azione, premiando chi vi aderisce e penalizzando chi resiste.
Il ricevente non è una tabula rasa, ma un essere razionale solo in parte, che filtra le informazioni in base al calcolo costi-benefici e alla soddisfazione che potrà ricavarne. È qui che la psicologia cognitiva incontra la propaganda: nel comprendere come semplificare, frammentare e ripetere per aggirare la fatica del pensiero complesso.
Risparmio cognitivo e percorsi periferici
Bombardati da stimoli, gli individui selezionano inconsciamente solo ciò che conferma le proprie convinzioni, ignorando il resto. È il meccanismo dell’esposizione selettiva. La psicologia cognitiva lo chiama cognitive miser, il risparmiatore cognitivo. Un individuo che elabora le informazioni attraverso scorciatoie mentali, preferendo percorsi periferici a quelli analitici. La comunicazione moderna non solo conosce questa dinamica, ma la incoraggia, struttuando così strategie di semplificazione cognitive. Concetti ridotti, polarizzati, slogan brevi. L’esposizione selettiva fa il resto, orientando l’attenzione solo verso ciò che conferma convinzioni preesistenti. La scelta del linguaggio, del simbolo, del suono, non è mai neutra: Questa deve evocare, rassicurare e codificare rapidamente un senso. L’obiettivo è la rapidità della codifica mentale.
Memoria, familiarità e ripetizione
Ogni messaggio persuasivo si gioca in un equilibrio tra memoria a breve (Mbt) e a lungo termine (Mlt). Più una comunicazione richiama concetti già noti, più sarà accessibile alla mente e più facile da interiorizzare. Due fattori, recenza e frequenza, ne determinano poi l’efficacia e l’eco. Più un messaggio è ripetuto e più trasforma l’estraneo in abituale e l’abituale in credibile.
Il potere delle emozioni
La potenza del messaggio sta anche nell’emozione che genera. Paura, rabbia, senso di appartenenza: ogni sentimento può essere un acceleratore, un fertilizzatore. Come scrive Daniel Kahneman in Pensieri lenti e veloci, l’uomo non decide solo con la mente, ma anche con la pancia. Le emozioni distorcono la percezione della realtà, creando i cosiddetti bias cognitivi. E una buona comunicazione persuasiva sa come sfruttarli.
Uno dei più antichi strumenti di manipolazione collettiva è la paura. Tuttavia, occorre saper dosare con cura. Se un eccesso di spavento paralizza; un buon dosaggio di paura è invece efficace, soprattutto se accompagnata da una promessa di salvezza. Il persuasore mostra la minaccia, ma offre anche la via d’uscita: una raccomandazione, un voto, un comportamento “giusto”. È il meccanismo perfetto del condizionamento emotivo, il timore del pericolo unito alla gratificazione della soluzione.
Le costruzioni identitarie
Ogni leadership duratura si fonda su un’idea collettiva del “noi”. Il senso di appartenenza rafforza la coesione e riduce la dissonanza interna. Solitamente, chi si sente parte del gruppo difficilmente lo abbandonerà.
La costruzione del “noi” implica inevitabilmente la definizione di un “loro”. È il principio dell’ingroup e dell’outgroup: due poli necessari di un’unica narrazione. La contrapposizione diventa carburante identitario, alimentato da lessici di scontro, demonizzazioni e criminalizzazioni simboliche. La manipolazione delle percezioni, più che spiegare programmi o soluzioni, lavora per differenza. L’altro, il nemico, diventa incarnazione del male, mentre il proprio gruppo si auto-rappresenta come baluardo del bene.
In questo schema, la comunicazione non mira più all’ascolto, ma alla polarizzazione. Il conflitto diventa linguaggio, e il linguaggio diventa realtà, plasmandone i contenuti e creando identità collettive anche lì dove di contenuti condivisi non ce ne sono. Esistono gruppi che si fondano sul vuoto, uniti solo dal senso di appartenenza. È il meccanismo del granfalloon, teorizzato dallo scrittore Kurt Vonnegut: comunità effimere e prive di sostanza, ma capaci di generare coesione emotiva. “Noi” diventa così una finzione utile, una bandiera sotto cui radunare le emozioni più che le idee, uno strumento di grande utilità per le compagne di guerra cognitiva e manipolazione delle percezioni. Il granfalloon è l’emblema della società contemporanea. Un insieme di appartenenze deboli ma intensamente sentite, dove l’identità è costruita più dalla percezioni che dalle conoscenze.
















