La Francia è oggi il case study più evidente della strategia russa di destabilizzazione, ma le stesse dinamiche attraversano tutta l’Europa. Atti simbolici mirati sfruttano faglie sociali preesistenti per alimentare diffidenza, polarizzazione e insicurezza percepita. È una guerra cognitiva che colpisce fiducia pubblica, coesione sociale e capacità politica in tutta l’Unione
Gli episodi che hanno attraversato la Francia negli ultimi due anni, dalle stelle di David dipinte sulle facciate dei palazzi parigini alle teste di maiale deposte davanti alle moschee, passando per la vernice verde spruzzata contro sinagoghe e memoriali, rappresentano case studies utili per comprendere tattiche, operazioni ed evoluzioni della strategia di destabilizzazione nei confronti dell’Europa, della sua governance e della tenuta politica e sociale dei suoi Stati membri.
Parigi come case study. Individuare e sfruttare le linee di faglia
Un’inchiesta di Mediapart, che ha consultato documenti interni al Cremlino provenienti dall’intelligence francese, sottolinea come gli eventi che hanno coinvolto sinagoghe e moschee siano in realtà, secondo gli analisti francesi, parte di una strategia approvata dall’amministrazione presidenziale russa per alimentare la percezione di una Francia simultaneamente antisemitica e islamofoba, colpendo alternativamente comunità vulnerabili per amplificare le loro reciproche diffidenze.
Secondo quanto riferito da Mediapart, gli apparati di informazione e sicurezza francesi ritengono che Mosca abbia deliberatamente puntato a esasperare il rapporto tra ebrei e musulmani, sfruttando le polarizzazioni legate al conflitto israelo-palestinese e inserendosi nelle fratture sociali francesi più esposte. La Francia sarebbe, da tempo, un bersaglio privilegiato del Cremlino: un ambiente dove tensioni identitarie e memorie conflittuali offrono terreno fertile alle operazioni di influenza. Già nel 2024 la Dgsi descriveva un pattern ricorrente, che vedeva la Russia individuare vulnerabilità preesistenti, per poi impattarvi tramite attori usa e getta, criminalità locale o proxy, orchestrando azioni destinate a disorientare la percezione pubblica della sicurezza e della coesione nazionale.
Questione di metodo
Due casi, stesso schema. Emerso dalle indagini, il nome di Aleksandar Savic, cittadino serbo già noto alle agenzie europee, avrebbe diretto da remoto sia gli atti vandalici con vernice verde contro luoghi ebraici sia il deposito delle teste di maiale davanti a diversi luoghi di culto musulmani. Da qui, le operazioni sarebbero avvenute attraverso canali criptati creati appositamente, con istruzioni fornite in modo puntuale e cancellate dopo l’esecuzione. Modello che richiama quello di Nikolay Ivanov, il bulgaro coinvolto nell’azione delle mani rosse sul Memoriale della Shoah, poi fuggito verso Mosca prima di essere individuato. Casi differenti e struttura analoga. Intermediari esterni, esecutori reclutati nell’ex spazio sovietico, una catena di comando spezzettata e strutturata per mantenere la negabilità formale della Russia. Una sequenza di piccoli colpi posizionati su linee di frattura già esistenti e la trasformazione di operazioni come veri e propri detonatori cognitivi, psicologici, epistemici. Se un incidente isolato può essere sufficiente a far emergere un senso di vulnerabilità diffusa, spingendo l’opinione pubblica a percepire una minaccia ambientale più ampia di quanto suggeriscano i fatti, il risultato di molti eventi, dagli episodi francesi alle micro-incursioni russe nei cieli europei, è un Paese che si ritrova a discutere non tanto dell’episodio in sé, quanto del suo significato simbolico e della sua capacità di rivelare una presunta ostilità interna tra comunità.
Quale guerra?
Interferenze informatiche, manipolazione dei flussi migratori, bellicizzazione degli ecosistemi informativi, uso tattico di droni non identificati, campagne di disinformazione, avvelenamento dei bacini informativi alla base dei modelli di IA e LLM. Guardando dentro casa propria, polarizzazione del dibattito pubblico e uso coercitivo del rumore, della confusione. Interferenze informative, epistemiche, cognitive che, tramite la polarizzazione, fanno leva su attivatori quali rabbia e paura. Talvolta violenza. Così, le strategie di destabilizzazione si auto fagocitano e inquinano la libertà di pensiero e il diritto di manifestare, deformandone la natura pacifica e arrivando a configurare assalti come quello subito dalla redazione de La Stampa.
L’obiettivo? Non le infrastrutture materiali, o almeno non immediatamente, bensì quelle invisibili, che tengono insieme una democrazia. Incrinare la percezione di sicurezza, la fiducia reciproca, la capacità di riconoscere l’autenticità delle informazioni. E l’Europa, con la sua complessità sociale, diventa così un terreno ideale per testare e perfezionare nuove forme di pressione.
Se poi la tecnologia avanza, l’uomo rimane lo stesso. Qui, la crescente diffusione e lo sviluppo esponenziale dell’IA generativa amplifica ulteriormente gli scenari delineati. Oggi è possibile costruire in pochi secondi contenuti sintetici, manipolare la percezione pubblica tramite bot e troll, replicare automaticamente narrazioni ostili e seminare sfiducia attraverso video, immagini e notizie artificiali. Le democrazie si trovano in una posizione complessa: devono proteggere la libertà informativa senza lasciare che l’ambiente cognitivo diventi un corridoio operativo per attori ostili. La sfida è epistemica, politica, culturale. Occorre solidità e resilienza pubblica, maggiore alfabetizzazione digitale, un sistema di allerta che riconosca rapidamente la natura di campagne manipolative come quelle ricostruite da Mediapart sul caso francese. Ma occorre anche farlo tempestivamente, smontando le narrazioni ostili e i loro effetti reali, violenti, corrosivi.
Il punto centrale è che la destabilizzazione, la guerra cognitiva, ibrida, o come si preferisca chiamarla, mira a dividere, erodendo la fiducia dei cittadini dal livello verticale a quello orizzontale, ovvero sia tra di loro che nei confronti delle istituzioni. In questo tipo di conflitto, ogni gesto, anche il più circoscritto, può essere amplificato fino a diventare una crepa nella percezione collettiva della sicurezza. La Francia rappresenta oggi un case study di come queste dinamiche si articolino nella pratica, ma basta fermarsi e osservare gli eventi che si susseguono tutta Europa, e in Italia, per comprendere come l’attacco cognitivo riguardi tutti e di come gli effetti possano tradursi in azioni concrete, simbolicamente e pragmaticamente pericolose per la solidità della Repubblica.
Comprendere queste operazioni non significa cedere alla paranoia, piuttosto riconoscere che il terreno dello scontro è cambiato. Le democrazie sono attaccate nel modo in cui interpretano sé stesse. Ed è proprio qui la battaglia per la percezione.















