Skip to main content

Presepe, simbolo culturale o bersaglio ideologico? La riflessione di Cadelo

Di Elio Cadelo

Nell’attuale contesto politico la negazione del presepe non può essere considerato un gesto di libertà ma, un’iniziativa volta a destabilizzare le coscienze per creare profonde spaccature nella società. La riflessione di Elio Cadelo, autore de “Il Mondo Chiuso – il Conflitto tre islam e la Modernità”, e con Luciano Pellicani, “Contro la Modernità – le radici della cultura antiscientifica in Italia”

Anche quest’anno non sono mancate le polemiche sul presepe. Lo scontro è avvenuto con quanti, ricoprendo anche ruoli istituzionali, si sono rifiutati di allestirlo per non offendere minoranze religiose (islam in particolare) o perché, essendo laici, hanno ritenuto di delegare la scelta di realizzarlo o meno ad altri soggetti. Le polemiche hanno riguardato, anche quanti hanno allestito presepi stravolgendo il suo significato e il messaggio natalizio. Insomma, ogni anno l’allestimento del presepe, anziché essere un rito di concordia e di riconoscimento di valori comuni che vanno ben oltre il cattolicesimo, diviene un atto divisivo.

Sarebbe, però, superficiale relegare questi episodi alla cronaca come gesti di spavalderia sessantottina o come azioni poste in essere per richiamare l’attenzione dei media. Si tratta di diatribe che da anni contraddistinguono il periodo che precede il Natale e pertanto vanno approfondite superando la contingenza.

Il presepe, però, è un’altra cosa. È prima di tutto la cultura italiana nella sua essenza. Negare il presepe significa negare ciò che sta a fondamento dell’arte italiana e ha fatto della rappresentazione della Natività il suo segno di riconoscimento nel mondo. Significa non comprenderne il significato simbolico, culturale oltre che religioso e come tutto ciò abbia influito sulla cultura occidentale. Con il presepe e le sue riproduzioni pittoriche e scultoree, le spettacolarizzazioni nelle piazze e nelle chiese, che ancor oggi si ripetono in centinaia di comuni italiani, ebbe inizio la cultura moderna e quel rinnovamento artistico che nel Medioevo pose la base della cultura dell’Occidente, non solo cattolica, che sfocerà nel Rinascimento.

Tutti i maggiori artisti si sono espressi nel presepe a cominciare da Giotto, Arnolfo di Cambio, Cimabue, fino ad Andrea della Robbia, Filippo Lippi, Botticelli e Leonardo. E nel teatro? L’origine del teatro italiano è nel dramma liturgico, nei presepi viventi come nelle processioni della Passione. Ma non basta. Provate a immaginare Napoli senza presepi. Provate a dire ai turisti che visitano l’Italia per vedere da vicino l’arte, la cultura e tutto ciò che questa tradizione ha creato nel mondo che qui non ci sono più i presepi e che sono stati rinnegati perché segno che la cultura occidentale debba essere “decolonizzata”.

Piaccia o no, da oramai alcuni decenni, l’Occidente deve fronteggiare un’offensiva che mira a mettere in crisi la sua cultura e il suo patrimonio di conoscenza sostenendo che la sua condizione attuale sarebbe il frutto di vessazioni su altri popoli.

Nell’attuale crisi d’identità del mondo occidentale, e dell’Europa in particolare, iniziative volte a manipolare narrazioni e contenuti emotivamente polarizzanti riescono ad avere una forte presa sull’opinione pubblica e sono utili ad accrescere il senso di sfiducia verso le istituzioni. La negazione del presepe genera nei più, un senso di frustrazione, in particolare quando per dare forza a tali scelte si condanna il Cristianesimo quale il simbolo di un Occidente aggressivo e predone.

In campo non c’è solo la Cancel culture (o cultura della cancellazione) che, come il politicamente corretto, discrimina la cultura occidentale a favore di quella delle minoranze e dell’islam; ma anche i movimenti ecologisti, che contestano l’Umanesimo che ha posto l’uomo e la sua scienza al centro della storia e non la natura; i Pro-Pal che fondano la propria identità sull’antisemitismo intorno al quale raccolgono dall’estrema destra alla sinistra radicale fino agli ambienti religiosi estremisti e alle comunità di immigrati in una prospettiva anti-occidentale e anti-modernista: tutti rami di un’unica pianta il cui fine è la lotta all’Occidente che è ben rappresentata nel murales con il miliziano di Hamas, Greta Tumberg e Francesca Albanese apparso qualche giorno fa a Roma.

Non sono, però, solo le piazze a scendere in campo contro la cultura occidentale, ma anche organizzazioni culturali e universitarie. In un’affollata conferenza a Roma un noto docente di Storia Medievale ha recentemente spiegato che l’università, quale istituzione per la formazione e la diffusione della cultura, è una creazione islamica che nacque a Bagdad nel 750 circa per volere del califfo Al Mansur.

Ecco il suo raccontato: un giorno il califfo di Bagdad, infastidito dal brusio di voci che proveniva dal mercato che si svolgeva nelle vicinanze del suo palazzo, tese l’orecchio per ascoltare cosa dicessero i mercanti e con sua sorpresa sentì che alcuni urlavano: “Io vendo matematica”, “io vendo astronomia”, io vendo letteratura”, e così via. Allora, all’illustre califfo balenò un’idea: perché non riunire tutti questi venditori-professori-disoccupati in un unico luogo? Nacquero così le Case della Saggezza, cioè le prime università.

Ricordo che da studente avevo mi avevano insegnato che Platone aveva fondato l’Accademia, che gli sopravverrà fino al VI-VII secolo, e Aristotele il Liceo e che il sistema delle Scholae, voluto da Carlo Magno, fu diffuso in tutta Europa dopo la fondazione della Schola Palatina nel 782 ad Aquisgrana.

Ad ogni buon conto, delle cosiddette Case della Saggezza non esiste alcuna traccia né letteraria – non ne parlano Avicenna, Averroè e nessun teologo musulmano – né archeologica. La maggior parte degli studiosi ritiene, invece, che siano state indicate come tali delle vere e proprie scuole elementari dove i monaci Nestoriani, fuggiti da Bisanzio perché perseguitati, insegnavano in semplici tende l’arabo e l’aritmetica poiché al tempo di al-Mansur la quasi totalità della popolazione era analfabeta.

Rimaneggiare la storia è sempre un atto politico, collaudato con successo dall’Urss e utilizzato oggi dalla Russia, che ha lo scopo di un gettare scompiglio in specifiche realtà sociali al fine di costruzione narrazioni anti-occidentali. Ciò avviene, infatti, da parte quei gruppi che di volta in volta si aggregano inventandosi una nuova identità che pretendono di essere riconosciuti attraverso rimostranze anti-occidentali.

Uno dei tanti spazi dove vengono assemblate simili idee sono, per esempio, le Cop (Conference of the Parties) sul clima delle Nazioni Unite: qui, annualmente ambientalisti, minoranze etniche (abitanti delle isole del Pacifico, tribù amazzoniche, Inuit, e così via) si compattano, insieme alla gran parte dei Paesi islamici – Arabia Saudita esclusa -, per accusare l’Occidente di essere stato e di continuare a essere, colonialista e provocare, per sete di profitto e di potere, l’apocalisse ambientale.

Questa postura anticolonialista, che vede l’Occidente come la causa dei mali e delle sofferenze delle minoranze del pianeta, è la base programmatica della gran parte dei movimenti anti-sistema che oggi agitano le piazze. L’abbattimento delle statue di Cristoforo Colombo o di Lincoln, perché schiavista, fino alla censura di libri, romanzi e perfino delle commedie Shakespeare, opere liriche e quant’altro appaia come discriminatorio verso le minoranze o altre culture è espressione della lotta al colonialismo (politico, economico, culturale, sociale, scientifico, artistico e così via) di questi movimenti. In Italia non si è ancora arrivati a tanto, ma occorre prendere atto che da alcuni decenni, insiste un’offensiva che intende riscrivere la storia del nostro Paese e di quello arabo-islamico assegnando a quest’ultimo un ruolo fondamentale nell’evoluzione intellettuale, tecnologica e scientifica dell’Italia e dell’Occidente. Si tratta di falsificazioni, entrate perfino in testi scolastici e universitari, che hanno lo scopo di reinterpretare importanti eventi della storia.

Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, la società occidentale ha fatto fatica ha legare i giovani ai valori delle generazioni precedenti, tanto che perfino gli educatori hanno perso fiducia in quei valori che dovevano trasmettere. Oggi l’Occidente si è estraniato dai principi che l’hanno ispirato nei secoli passati e non offre più alcuna narrazione convincente intorno alla quale compattare la società. Sotto certi aspetti si può affermare che le espressioni di rabbia di una parte dei primi immigrati, che avevano scelto di incamminarsi verso l’Occidente al fine non solo di migliorare la qualità della vita ma di cambiare anche i valori e prospettive, sono scoppiate quando hanno preso coscienza di trovarsi in un mondo dove la cultura occidentale e la modernità vengono fatte a pezzi ogni giorno.

L’Occidente e la modernità costituiscono un binomio inscindibile. Non è possibile pensare l’Occidente senza la modernità. Se si insidia la modernità si spezzano le radici dell’Occidente.

La modernità è uno dei prodotti della straordinaria espansione delle conoscenze tecniche e scientifiche che inizia a partire dal XVIII secolo e che ha permesso all’uomo di controllare e plasmare il proprio ambiente in modi totalmente nuovi. Il fatto che il mondo islamico non abbia mai partecipato alla gara per l’innovazione e la scoperta delle leggi della natura, in altre parole sia stato sempre lontano dalla scienza (i musulmani sono il 23% della popolazione mondiale ma hanno prodotto solo due Premi Nobel per la scienza) è parte della sua etica poiché la modernizzazione, come scrive Samuel Hadigton “è un processo rivoluzionario paragonabile soltanto al passaggio delle società primitive a quelle civilizzate”.

Una nazione, un gruppo etnico tanto più diviene fragile quanto più la sua identità è messa in discussione. Quando ciò avviene le sue radici si indeboliscono e la perdita della memoria, che altro non è che la sua storia, causa la mancanza di coesione nella comunità. Il passato è decisivo per affermare la propria identità come appartenenza a una storia e ciò è determinante per la stabilità di una società.

In conclusione, nell’attuale contesto politico la negazione del presepe non può essere considerato un gesto di libertà ma, un’iniziativa volta a destabilizzare le coscienze per creare profonde spaccature nella società.


×

Iscriviti alla newsletter