La pubblicazione della nuova National security strategy americana ha suscitato in Europa reazioni di sorpresa, che ignorano una decennale evoluzione strategica. Tra segnali già visibili dai tempi di Obama e Trump, disattenzioni sulle proposte di autonomia europea e pressioni interne ed esterne, l’Unione appare oggi più vulnerabile che mai. La riflessione di Federica Dall’Arche, senior research associate del Vienna Center for disarmament and non-proliferation
La pubblicazione della nuova National security strategy (Nss) statunitense ha generato in Europa un’ondata di reazioni che oscillano tra lo sconcerto e l’indignazione. Questo shock collettivo ricorda – paradossalmente – il celebre sketch di Saturday Night Live uscito dopo il lancio dell’album sorpresa di Beyoncé nel 2013: un momento in cui una parte dell’opinione pubblica bianca americana, sconvolta, si rese improvvisamente conto che l’artista fosse, in realtà, nera: una rivelazione ovvia, ma vissuta come una presa di coscienza tardiva e collettiva. Per chi non lo avesse visto, consiglio lo sketch divertente.
Ma torniamo alla geopolitica. Allo stesso modo, molti commentatori europei sembrano essersi accorti solo adesso di una traiettoria strategica che è in atto da oltre un decennio. È davvero sconfortante constatare come persino gli analisti più esperti si comportino come se la pubblicazione della Nss li avesse colti di sorpresa — quasi come se le dinamiche che il documento oggi mette nero su bianco non fossero già chiaramente visibili da anni.
Il lungo addio della centralità europea
Il processo di ridefinizione delle priorità strategiche statunitensi è infatti iniziato molti anni addietro. Già con l’amministrazione Obama, il cosiddetto pivot to Asia — annunciato nel 2011 dall’allora segretario di Stato Hillary Clinton nel suo articolo programmatico “America’s Pacific Century” pubblicato su Foreign Policy, pubblicato nel novembre 2011 — rappresentò un segnale inequivocabile: l’epicentro degli interessi di Washington si sarebbe progressivamente spostato dal Vecchio continente verso l’Indo-Pacifico. In parole più chiare, già allora l’Europa veniva considerata il “passato”, l’America il “presente” e l’Asia il futuro dell’interesse globale.
Da allora, nessun presidente ha realmente invertito la rotta. Le amministrazioni successive hanno variato toni e metodi, ma non la sostanza della transizione strategica. L’Europa è rimasta un partner (per lo più economico), ma non più il fulcro. E questa dinamica era evidente ben prima che un documento formale la sancisse nero su bianco.
Il precedente delle dichiarazioni di Donald Trump
Sorprende quindi che molti analisti europei trattino la nuova Nss come una rivelazione improvvisa. Già durante il primo mandato di Donald Trump, la Casa Bianca aveva espresso con chiarezza le sue frustrazioni verso l’alleanza transatlantica: dal richiamo reiterato agli impegni di spesa militare al celebre riferimento alla Nato come “obsolete” (in seguito parzialmente ritrattato), fino alla minaccia — espressa più volte nel corso degli anni — di ridurre drasticamente l’impegno americano qualora gli Alleati non avessero aumentato i contributi per la difesa.
La prima amministrazione Trump era stata inequivocabile nei suoi riferimenti all’idea di abbandonare l’Europa e persino la Nato, ma noi, ingenui, abbiamo preferito non ascoltare. Abbiamo liquidato quelle dichiarazioni come le uscite di un presidente imprevedibile, persino senile, convinti che si trattasse di esternazioni destinate a svanire insieme al suo mandato, senza cogliere che riflettevano un orientamento più profondo: quello della base politica americana e di ampie componenti dell’establishment.
Anche quelle affermazioni, per quanto spesso mitigate o contraddette in seguito, esprimevano una tendenza reale e duratura negli Stati Uniti: una crescente insofferenza per il peso della sicurezza europea. Considerarle bizzarrie di un singolo presidente — e tentare di compiacerlo con concessioni continue — è stato un grave errore strategico dell’Europa.
Le occasioni mancate dell’autonomia strategica
Abbiamo lasciato correre, pensando fossero vaneggiamenti passeggeri. E allo stesso modo, abbiamo reagito con sufficienza o perfino deriso le proposte — provenienti in particolare dal presidente francese Emmanuel Macron — di rimboccarci le maniche, di costruire una difesa europea seria e realmente integrata e di sviluppare una capacità nucleare europea basata sul deterrente francese. Nel 2019, Macron definì la Nato in stato di “morte cerebrale”, invitando l’Unione a “riprendere in mano il proprio destino”. Le sue parole furono spesso ridicolizzate o ignorate, nonostante anticipassero molte delle vulnerabilità oggi sotto gli occhi di tutti.
L’invasione russa dell’Ucraina nel 2022 ha brevemente riunito l’Alleanza transatlantica, salvo poi riaprire il dibattito sull’autonomia strategica, ancora più preponderante oggi. Ma le risposte restano parziali e lente. E mentre l’Europa si shocka, il ciclo geopolitico accelera.
La vulnerabilità informativa: il ruolo delle piattaforme digitali
A questo quadro si aggiunge un’ulteriore minaccia: la disinformazione, amplificata oggi da piattaforme globali il cui impatto sul discorso politico è ormai impossibile da ignorare. Il caso di X (ex Twitter), di proprietà di Elon Musk, è emblematico.
Dopo le recenti contestazioni formali da parte dell’Unione europea per gravi violazioni del Digital Services Act — contestazioni culminate nella prima maxi-multa mai comminata nell’ambito del nuovo regime di vigilanza — Musk ha rovesciato la narrazione accusando Bruxelles di voler imporre misure “liberticide”. E nel giro di poche ore ha innescato una vera e propria campagna offensiva digitale contro Bruxelles e le istituzioni europee. Il risultato è stato immediato: un’ondata coordinata o spontanea di contenuti ostili, amplificati algoritmicamente, che ha alimentato sentimenti anti-europeisti negli Stati Uniti e, ancora più gravemente, all’interno dell’Unione stessa. E sappiamo bene che non si tratta di un episodio isolato. Il ruolo delle piattaforme social nel dibattito politico europeo è da tempo oggetto di attenzione: dalle accuse — riportate da vari media tedeschi — secondo cui la gestione di X avrebbe favorito la visibilità di contenuti pro-AfD durante la campagna per le elezioni regionali, fino alle polemiche in Italia, dove alcuni interventi di Musk hanno alimentato campagne online contro magistratura e istituzioni, contribuendo a polarizzare ulteriormente il clima politico. Sono solo alcuni esempi di una dinamica più ampia e ormai strutturale.
Ed è questo il punto: mentre l’Europa fatica a costruire una difesa credibile verso le pressioni esterne, attori privati dotati di un potere comunicativo senza precedenti riescono a destabilizzarla dall’interno, erodendo il consenso democratico e la coesione politica necessari a sostenere qualsiasi progetto di autonomia strategica.
Una Europa più debole – lo sappiamo – fa gola a molti: alla Russa, perché un’Unione frammentata e meno influente sul piano diplomatico e di sicurezza offre maggiori spazi per manovre destabilizzanti e di influenza nel vicinato; agli Stati Uniti, perché un’Ue meno coesa ed assertiva risulta più prevedibile e manipolabile e ostacola l’imposizione di standard che contrastano con gli interessi statunitensi; e a figure come Musk, che traggono vantaggio da un contesto normativo frammentato e meno capace di regolamentare le grandi piattaforme.
Ma a noi europei conviene davvero? Chi pensa di sì dimentica – o preferisce omettere – che molti dei diritti e delle tutele di cui godiamo oggi derivano proprio da Bruxelles. Dalle libertà personali e la protezione dei dati (Gdpr) alla libertà di circolazione, dalle garanzie sulle norme sul lavoro, fino ai divieti di importazione di prodotti (inclusi quelli alimentari) che sono altamente nocivi per la nostra salute: una parte decisiva della qualità democratica e civile della vita europea è stata costruita a livello comunitario.
Europa: un fronte esterno e uno interno
Siamo attaccati da tutti i fronti. Da quello occidentale, da quello orientale, e ahimè da quello interno. Le nostre democrazie, la nostra unità, la nostra pace, sono ad un rischio mai visto prima. E di fronte a tutto ciò, parlare di pressione su più fronti non è più retorica, ahimè.
Il momento della verità
Se l’Europa si dice scioccata dalla Nss, significa che non ha voluto leggere i segnali degli ultimi anni. Ma non ci sono più alibi. L’Unione deve decidere se diventare un attore geopolitico adulto o rassegnarsi a essere un territorio conteso da interessi esterni.
Integrare le capacità di difesa, investire con serietà nella sicurezza comune, rafforzare la resilienza democratica e informativa, e costruire una politica estera coerente non sono più opzioni: sono condizioni di sopravvivenza. Continuare a flirtare con i nazionalismi e con l’idea che singoli Stati possano “stare meglio da soli” è un’illusione pericolosa. È pura follia pensare che, in un mondo dominato da potenze-continente, ciascun Paese europeo possa difendere i propri interessi senza far parte di un’entità forte e integra. Da soli non andremo da nessuna parte — e questo vale in ogni campo: dalla sicurezza alla tecnologia, dall’energia alla politica estera.
Forse l’Europa non è ancora “in guerra”, ma è certamente al centro di un conflitto per la definizione del suo ruolo nel mondo. Continuare a stupirsi o a far finta di niente è un lusso che non può più permettersi.
















