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La legge elettorale tra democrazia maggioritaria e Premierato. Gli spunti liberali di Sterpa

Di Alessandro Sterpa

Il dibattito sulla legge elettorale si muove tra modelli teorici e compromessi politici, ma i timori di incostituzionalità sono spesso strumentali. La Costituzione lascia ampi margini al legislatore e la logica maggioritaria è ormai parte del sistema italiano. Il punto non è il modello perfetto, ma una legge capace di garantire governabilità e accompagnare la modifica della forma di governo. La ricetta liberale del costituzionalista Alessandro Sterpa 

Ogni riforma istituzionale viaggia su di un doppio binario, quello dei progetti teorici e quello dei compromessi politici. Quando il treno si ferma alla stazione esce sempre qualcosa che nessuno reputa perfetto – per fortuna direi – perché ognuno lo valuta in ragione della maggiore o minore corrispondenza al modello che preferisce. E così abbondano i “si poteva fare di meglio” o i “io avrei fatto diversamente”, che nulla ci dicono sulla concreta applicazione delle novità.

Come la Corte costituzionale ci ha detto, “non c’è […] un modello di sistema elettorale imposto dalla Carta costituzionale, in quanto quest’ultima lascia alla discrezionalità del legislatore la scelta del sistema che ritenga più idoneo ed efficace in considerazione del contesto storico”; tuttavia, la legge che disciplina l’elezione dei parlamentari non deve contraddire i principi costituzionali.

Questo, oggi, non sembra davvero un rischio concreto. Vediamo perché.

Siamo un Paese che negli ultimi decenni ha cambiato più volte la legge elettorale per il Parlamento e nel quale la Corte costituzionale si è espressa in numerose occasioni sul tema: non si viaggia al buio ma con un consolidato bagaglio di esperienze concrete, di norme scritte e di sentenze esplicative dei principi costituzionali che governano la materia.

Non c’è da allarmarsi. A maggior ragione se pensiamo che la legge elettorale potrebbe essere sottoposta alla Corte costituzionale anche prima della sua applicazione, al netto della complessa giurisprudenza sul giudizio di accertamento.

Possiamo dire fin da adesso che, qualunque legge uscirà dalla dinamica parlamentare, il fatto che non coincida con i desiderata di qualcuno non può significare che quella legge sia incostituzionale anche se siamo quasi certi che a livello comunicativo sarà così per chi in Aula non voterà le norme.

L’ennesimo grido di “attacco alla Costituzione” – vera inversione istituzionale delle grida manzoniane – o, chissà, un recupero della evocazione c.d. “legge truffa” che nulla giuridicamente aveva di truffa se non voler superare troppo presto il modello consociativo allora imperante.

Vi è poi un altro aspetto che condizionerà la stesura della legge elettorale: il modello di democrazia operante in Italia.

Si tratta di una democrazia non improntata più alla logica proporzionale e consociativa originaria, ma di una democrazia maggioritaria ossia non solo organizzata per far decidere una maggioranza politica ma anche abituata ormai ad impiegare le elezioni per individuare quella maggioranza di governo.

Utili ancora una volta le parole della Corte costituzionale che, ragionando del “regionalismo differenziato”, ha fatto riferimento alla attuale “forma di governo che funziona secondo la logica maggioritaria”.

D’altronde, la “logica maggioritaria” che semplificandovuole “una maggioranza che governa e una opposizione che non governa” è ormai consolidata a livello comunale dal 1993 e nelle Regioni dal 1999 (in concreto dal 2000). In tutti e due i livelli di governo sub-statale, chi vince la competizione può contare su di una salda maggioranza nei consigli comunali e regionali.

Così accadeva per le Province fino a quando, dal 1993 alla “legge Delrio” del 2014, gli organi erano eletti a suffrago universale e diretto.

Ciò comporta che una legge elettorale per le politiche non potrà non avere l’obiettivo intrinseco di confermare una democrazia maggioritaria nazionale, sia che lo raggiunga con un sistema maggioritario, proporzionale o misto.

Se sarà con il proporzionale – come si prevede possa accadere – vorrà dire che occorrerà un premio di maggioranza, indicando – come ha preteso giustamente la Corte costituzionale e come ha fatto la Regione Toscana ad esempio – una soglia minima di consensi per il riconoscimento di quel premio.

Un ragionevole 40% oltre il quale chi vince potrà contare sulla maggioranza assoluta dei seggi (il55% è un livello adeguato già sperimentato). In questo modo la distorsione del voto appare ampiamente ragionevole e quindi salvabile in un giudizio di legittimità costituzionale.

Non considero ottimali le preferenze, ma sarebbero preferibili a queste liste “doppiamente bloccate” (grande collegio e piccolo listino) del sistema vigente, anche se meglio sarebbe un sistema maggioritario uninominale che però viaggia solo sul mio binario dei modelli teorici, per l’appunto.

Con o senza il ballottaggio? In teoria la Corte costituzionale lo censurò nell’Italicum perché in assenza della elezione diretta dell’esecutivo: d’altronde il ballottaggio c’è già in certi casi a livello comunale e regionale.

Tuttavia, si potrebbe anche pensare che una parte della legge elettorale possa essere predisposta per essere applicata (come fu allora per l’Italicum) sotto condizione della entrata in vigore della riforma del premierato in modo che non si torni a ridiscutere la legge elettorale nuovamente.

Il punto, infatti, è che la nuova legge elettorale non deve essere una scusante per fermare la modifica della forma di governo: anzi deve essere uno strumento per anticiparla nei fatti oltre che – magari – in diritto.


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