Come si chiude l’anno appena trascorso per i politici italiani? Dalla segretaria del Partito democratico insidiata dal leader del Movimento 5 Stelle alla presidente del Consiglio equilibrista tra necessità di alleanza e di governo, per non dimenticare i piccoli partiti ago della bilancia. Ecco le pagelle di Martina Carone
Il 2025 è stato un anno di resistenza più che di slancio: Schlein ha difeso senza avanzare, Meloni ha consolidato ma non innovato, Conte ha mantenuto la posizione, Salvini è rimasto in partita. Ora il 2026 impone scelte decisive: leadership da confermare, referendum da vincere, coalizioni da ridefinire.
Ecco le pagelle 2025 dei principali leader politici italiani.
ELLY SCHLEIN
Attaccata da sopra, da sotto, da dentro, da fuori, da destra e (ovviamente) da sinistra: lei resiste, rocciosa, restando pur sempre alla guida del primo partito dell’opposizione, che però anche nel 2025 non si è schiodato dal 22-23% nelle intenzioni di voto. Ha tentato di mettere in difficoltà Meloni, e qualche volta (dal caso Almasri alla legge di bilancio) c’è anche riuscita, anche se il processo di bi-polarizzazione tra due donne non è ancora compiuto (citofonare Conte, e si veda l’illuminante episodio del confronto mancato con meloni e lo stesso Conte ad Atreju). Il 2026 dovrà essere l’anno dell’ascesa – se non nei sondaggi, almeno con dimostrazioni di leadership: per battersi alle politiche efficacemente le serviranno corona e scettro. E figure pronte a difenderla. E magari, perché no, anche questo benedetto programma, di cui tutti parlano ma su cui nessuno ha iniziato a mettere mano.
Schlein nel 2025 ha giocato come un difensore centrale vecchia scuola: niente fuochi d’artificio, ma respinge tutto quello che arriva. Non fa avanzare il baricentro del partito, ma impedisce il collasso. Una stagione non di crescita, ma di sopravvivenza organizzata.
Giudizio: difesa Stonewall.
GIORGIA MELONI
Ascetica, austera, thatcheriana: questo è ciò che lei (e i suoi numerosi sostenitori) pensa di sé stessa. Rigida, affaticata, nervosa e talvolta sguaiata: questo è ciò che dicono gli altri. Chi ha più da perdere, in questo 2026, è proprio la presidente del Consiglio: e non solo perché parte da un tetto alto (da quando si è insediata il suo partito viaggia costantemente intorno al 30%, e la storia insegna che da lì è più facile scendere che salire) ma perché si gioca tutto, volente o nolente, nei primi tre mesi, con il referendum costituzionale previsto per marzo.
Il 2026 per Meloni sarà come una bottiglia rimasta in cantina abbastanza a lungo. Non la stappi per curiosità, la stappi per giudicarla. Finché resta chiusa, il suo valore è alto, ma teorico. Quando la apri, non contano più le aspettative, contano solo due possibilità: o è ottima, oppure basta una singola imperfezione per rovinare tutta la bottiglia. Ecco, il referendum può essere l’apertura della bottiglia.
E poi c’è Salvini, ovviamente, che non fa mistero di volere il Viminale e che minaccia (e fa) sgambetti ogni volta che ne ha l’occasione: Salvini è quello che scuote il tavolo mentre versi il vino. Qui non è più questione di crescere ancora, ma di reggere, dignitosamente, o cadere, rovinosamente.
Giudizio: Barolo (o 1994 o 2005).
MATTEO SALVINI
Tra il nuovo codice della strada e i problemi ai trasporti, il 2025 inizia in salita. E per fare fede al motto che suggerisce di tenersi stretto gli amici, ma ancor di più i nemici (o forse per ovviare ai ritardi dei treni), Salvini lancia in anticipo un congresso flash, costringendo Zaia e Vannacci a rientrare nei ranghi (forse). Eppure, anche grazie a Zaia, la Lega tiene botta alle regionali e sotto sotto rimette in discussione anche la Lombardia, “ceduta” a FdI anzitempo. Ora il grande dilemma del 2026: che fare con Vannacci? Come tenere insieme un partito sempre più palesemente diviso tra un’anima “governista” e un’altra più movimentista – per non dire “sfascista”?
Salvini, nel 2025, non ha vinto il torneo, ma ha fatto qualcosa che nessuno si aspettava: è rimasto in partita. Per chi conosce il tennis, è po’ come Wawrinka negli ultimi anni: non solleva più coppe, non è più il nome da battere, ma se te lo ritrovi in tabellone non puoi mai stare sereno perché ti scompagina il percorso, ti cambia gli equilibri, ti costringe a rivedere i pronostici.
Ed è esattamente quello che ha fatto Salvini con la Lega: non ha dominato la stagione, vero, ma l’ha resa instabile.
Giudizio: giocatore da mezza classifica.
GIUSEPPE CONTE
Nel 2025 Conte attraversa una stagione strana: non sfonda, ma non arretra mai. Nei sondaggi il M5S cresce, lentamente ma costantemente, rosicchia consensi qua e là (ma soprattutto “qua”, vale a dire in quella che dovrebbe essere la coalizione di cui fa parte), tiene botta più che dignitosamente in alcune regionali chiave, piazza uno storico ex pezzo da 90 come Fico alla guida della Campania, e soprattutto diventa l’interlocutore inevitabile di ogni opposizione al governo: su Almasri, sulla manovra, sul referendum, sulle politiche economiche.
Nel famoso dibattito (mai avvenuto) di Atreju, è lui a impedire la polarizzazione Schlein–Meloni: per gli italiani non è né il più né il meno convincente, ma resta il più “presente” nel campo dell’alternativa. Secondo molti sondaggi, il più “solido” tra i possibili avversari di Meloni è proprio lui. Il problema di Conte non è il consenso, ma l’orizzonte: il 2025 non ha aperto una fase, ma ha stabilizzato la sua posizione.
Per lui e per il M5S, il 2026 è quindi l’anno in cui si decide se potrà tornare ad avere un ruolo di guida della coalizione progressista o se invece continuerà ad essere solo (?) una presenza rumorosa ma non decisiva.
Giudizio: consolidamento senza slancio.
CARLO CALENDA
Il 2025 di Calenda è fatto di dossier, conferenze, interventi chirurgici su industria, difesa, Europa, Pnrr, Gaza, Ucraina. Parla sempre nel momento giusto, ma quasi mai al punto di spostare realmente qualcosa.
Azione rimane il primo tra i partiti minori (intorno al 3%, giusto giusto sul filo della soglia di sbarramento per le politiche), ma nel frattempo tutto intorno c’è un sistema che si riorganizza senza di lui: Pd–M5S–Avs si saldano, il centrodestra è sempre quello,e il “terzo polo” è ormai da tempo una prospettiva tramontata.
Calenda sembra sempre voler avere ragione su tutto, ma nel 2025 potrebbe aver scoperto che avere ragione non basta più, perlomeno se si vuole contare qualcosa.
Giudizio: voce chiara, forza laterale.
MATTEO RENZI
Nel 2025 Renzi è ovunque: manovra sui referendum, incrocia dossier, lancia nuove alleanze locali (che fine ha fatto “Casa riformista”?), onnipresente sui media, muove parlamentari, suggerisce assetti. Italia Viva non cresce, non crolla, ma resta indispensabile in ogni equilibrio stretto.
Renzi è quello che entra nella stanza quando la partita si blocca. Ma nel 2025 non è mai stato lui a scriverne l’esito. Il suo 2025 sa molto di già visto: la solita fantasia al servizio della tattica, tanta influenza, ma nessuna architettura nuova. Nel 2026 serve come l’aria uno scatto, un’intuizione, che porti a qualcosa di più concreto.
Giudizio: regista senza film.
ANTONIO TAJANI
Il 2025 è l’anno in cui Forza Italia si consolida sia all’esterno, tra gli elettori, sia all’interno, con Tajani che prende sempre più in mano il controllo del partito: gestisce il congresso, tiene insieme la macchina, presidia gli equilibri di governo, ma non intercetta nuova domanda politica. Il 53% degli elettori di FI lo indica come miglior leader, ma il partito è praticamente immobile sull’8%, praticamente appaiato con la Lega e lontano anni luce da FdI.
Il lavoro di Tajani è tutto di contenimento, anche se fa di tutto per non farlo apparire tale: al ritmo di un’intervista al giorno, dichiara, rassicura, ammonisce, rilancia a seconda delle circostanze. Ma lo fa giocando il ruolo del garante di una stabilità, di una continuità senza strappi, in una fase in cui alcuni persino dentro FI (citofonare Piersilvio e Marina Berlusconi) chiedono di aprirsi a nuove prospettive.
Giudizio: custode, non costruttore.
ANGELO BONELLI & NICOLA FRATOIANNI
Nel 2025 Avs è ovunque nei passaggi simbolici dell’opposizione: Gaza, clima, lavoro, diritti, piazze, referendum. Il partito non cresce, ma resta stabile su un più che dignitoso 6-7%, contribuendo a definire il perimetro valoriale del campo progressista e a spostarne il baricentro decisamente più a sinistra che al centro: e questo si sente, soprattutto quando nel centrosinistra (o meglio nel Pd) qualcuno prova ad allargarsi verso il centro.
Ma Bonelli e Fratoianni sono lì, guardiani e custodi della coscienza politica della coalizione, e allo stesso tempo (forse inconsapevolmente) del suo limitato potenziale di espansione sul piano elettorale.
Giudizio: presenza necessaria, forza limitata.
















