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L’orizzonte cieco di Matteo Renzi

Definire “clamoroso autogol”, come enfatizza Matteo Renzi, l’invito di Napolitano, raccolto da Letta, rivolto al parlamento per utilizzare, dopo quasi cinque lustri, un provvedimento di clemenza generale che decongestioni le infernali carceri italiane, ripristini un minimo di legalità in Italia (cioè il contrario del giustizialismo) e concorra a tentare di dare respiro a quella pacificazione nazionale senza della quale neppure le larghe intese possono assicurare una stabilità politica, costituisce una fragorosa autorete del sindaco di Firenze. Aprendo la sua personale campagna elettorale a Bari, Renzi ha rivelato tutti i limiti del suo progetto che, costruito sul principio della rottamazione, è già sfociato nel più vieto cedimento all’ascolto del ventre estremistico di un paese politicamente sempre più confuso.

Anche Enrico Letta, conoscitore di più lungo corso del reazionarismo populistico che induce le periferie dei movimenti politici a privilegiare la pancia piuttosto che la razionalità, si mostra ossequiente ai voleri della manovalanza territoriale del Pd. Il che lo porta a regredire rispetto alle sue dichiarazioni programmatiche dell’aprile scorso, che tante speranze avevano suscitato nei riformatori presenti in tutti i settori politici ragionanti e nell’intellettualità non conformista. Ma se entrambi, l’aspirante a segretario e a premier e il premier in carica, vanno ad infilarsi nel buco oscuro, agitato e impropositivo, d’una base dalla vista corta e dal passato discutibilissimo, vuol dire che non solo la vecchia nomenclatura burocratica, ma anche la leva più giovane di quell’ircocervo che è il Pd, non possiede alcuna visione strategica, ma crede solo ad un esercizio comodo del potere: alla maniera di un doroteismo che, nato nella Dc, finì con l’espandersi nell’intera sinistra e in buona parte dei redenti neofascisti.

Si è autorevolmente sostenuto che in Italia “la cultura politica è di sinistra e il paese è di destra”. Credo che le cose stiano diversamente. Il frastuono della industria culturale mediatica è di sinistra: tanto che si spaccia per legalità l’ipocrita giustizialismo che cancella quei diritti costituzionali che, in altri paesi democratici, vengono considerati fondativi e irrinunciabili. Si ha piuttosto la sensazione che, con certe mattane, Renzi (come Letta) pensi di recuperare consensi in quella corposa massa di tre milioni e mezzo di voti persi a febbraio e in buona misura riversatisi verso i grillini. Se ciò fosse, si capirebbe la riscoperta dell’estremismo, del luccichio dei riflettori, del focoso soccorso verso il presunto vincitore, il quale giochicchia un po’ troppo con la maggioranza corsara molto forte in senato.

Da Bari non s’è levata alcuna voce a favore di una rilettura severa della carta costituzionale. Si è accennato ad un urgente superamento del “ventennio”, guardando a ritroso ed esprimendosi moralisticamente, non politicamente. Quel “ventennio” non ha certo brillato per la sola stella berlusconiana, ma è stato contrassegnato da una alternanza di potere fra due campi rozzamente antagonistici che hanno bruciato personalità come D’Alema e Prodi.

L’uomo che si presenta come il simbolo del futuro, non ha detto se crede in un bipolarismo diverso da quello sperimentato; se auspica una legge elettorale rispettosa del pluralismo politico esistente nel paese; se sostiene il valore della stabilità politica o lo ritiene soltanto un comodo rifugio in un momento di disarmante crisi economica, che nessun tecnico presunto “esperto” ha saputo prevedere e tanto meno ha spiegato come sia possibile uscirne. Il candidato principale a cambiare l’Italia – una verbosità che caratterizza la propaganda sinistrorsa dal 1947 -, non ha in realtà indicato quale Italia sogna, anche se ha tutto il diritto di sognare ad occhi aperti. Renzi ha ragione a stizzirsi quando osserva che non significa nulla di buono precipitarsi sul carro del vincitore, quand’invece è indispensabile spingere il carro perché non arranchi troppo e giunga in testa alla meta. Ma anche spingere non è sufficiente, benché necessario. Le parole in libertà che si usano sarcasticamente spingono esclusivamente verso un movimentismo da fronte popolare unitario delle sinistre usando anche concetti di destra.

Ciò che soprattutto sconcerta nell’ultima versione del renzismo – quella decisiva, peraltro -, è l’irrisione per la funzione anche pedagogica che la politica è chiamata ad esercitare. Alcide De Gasperi si scontrò coi Comitati Civici e con lo stesso Pio XII per respingere l’irrazionalità della pancia cattolica; e rivendicò l’autonomia e la laicità della politica per scongiurare la clericalizzazione dello Stato, che il fondatore della Dc voleva conservare democratico. Certo Renzi non ha vissuto quell’epoca e non gli si può imputare un difetto di memoria. Ma siccome civettuosamente il sindaco fiorentino non disdegna una giovanile militanza nell’ultima Dc, non farebbe male a comprendere che le parole pesano, non sempre sono spazzate via dal vento di un nuovismo acritico, giovanilistico ma scarsamente propositivo e magari deliberatamente ambiguo: com’erano soliti fare i successori (di cui non pochi toscani) di De Gasperi. I quali cambiarono i connotati della Dc vincente, per ridurla a forza di traino dei tanti corporativismi, mai debellati e che, ora in particolare, si affollano per salire sul carro di un possibile vincitore ma guardando verso un orizzonte cieco.



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