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Caro Renzi, ti spiego la vera storia dell’amnistia. Altro che le tue frottole

Troppi porcellisti svolazzano come avvoltoi sull’amnistia cercando di usarla come concausa di uno sfascio della XVII legislatura. Capofila di tali volatili – nel senso di soggetti adusi alla volubilità di pensiero nel volgere di pochi mesi, passando da un eccesso di fervore per un atto di clemenza ad un rigetto totale -, è il principotto fiorentino Matteo Renzi. Che non sa più cosa inventarsi per richiamare sul suo nome il clamore dei media e l’attenzione del ventre del complesso popolo protestatario: piddino, grillino, viola, nichilista o soltanto confusionario. Colpiscono, in questo giovane già promettente, il suo vezzo di raccontar fole giocando sui significati dei diversi atti di clemenza sollecitati dal capo dello Stato ai parlamentari; e quel suo insistere nel ricordare che l’ultima clemenza è parecchio recente (sette anni), quand’invece l’amnistia è purtroppo vecchia di circa venticinque anni, uno stacco generazionale e ben vedere.

Quell’ultima amnistia non servì ad aprile le porte al “ventennio berlusconiano”, come Renzi ripete come una cantilena richiamante nuovo odio. Venne introdotta su perorazione speciale dei postcomunisti. E non ebbe effetti su Craxi, benché la camera gli avesse accordato un salvacondotto mentre gli inquirenti milanesi si erano presentati all’ingresso principale di Montecitorio nella presunzione di penetrare impunemente nel sacro palazzo ed andare a rovistare nei conti del Psi, come si trattasse di uno studio privato e non il luogo di rappresentanza del popolo italiano.

L’amnistia, peraltro, fu preparata prima del 2 giugno 1946 e varata da Togliatti il 18 giugno non solo per una pacificazione nazionale dopo la guerra civile e l’abbattimento democratico della monarchia. Cioè non servì solo – come si continua ad accreditare – come un salvacondotto per i fascisti repubblicani, bensì per comprendervi anche gli assassini comunisti del capitano Neri, capo partigiano di Como che voleva consegnare allo Stato l’oro di Dongo da lui raccolto e catalogato; e di don Pessina, parroco di una piccola comunità del Reggiano, reo soltanto di non essere disposto a subire l’animosità e la violenza di un Pci estremista e che aveva operato per trasformare l’Italia in una repubblica sovietista.



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