Il successo porta anche guai. Ne sono convinti i vertici brasiliani di Google che, grazie al boom di Orkut, il social network carioca controllato dalla società di Mountain View, continua ad attrarre l´attenzione della giustizia brasiliana: per ben 194 volte, nel giro di sei mesi, i giudici brasiliani hanno intimato al social network di ritirare video giudicati diffamatori su richiesta delle “vittime”. E per 194 volte Google ha risposto picche: You Tube, così come già successo in Italia, nega qualsiasi forma di responsabilità diretta in ciò che viene caricato dagli utenti.
Ma nel Mato Grosso, la terra di Fitzcarraldo e delle frecce avvelenate, in certi casi si va per le spicce. Il giudice di Mato Grosso do Sul ha ordinato l´arresto di Fabio José Silva Coelho, omonimo dell´autore dei best seller new age, dichiarandolo responsabile dei contenuti di due video lesivi della dignità di Alcides Bernal, candidato a sindaco nella città di Campo Grande. Un signore che, a giudicare dalle accuse, non è certo uno stinco di santo. Si va dal riciclaggio di denaro all´abuso sui minori, dall´incitamento all´aborto all´ubriachezza molesta. Roba, se vera, da far impallidire la “casta” nostrana.
L´atto di accusa, anonimo, minaccia così di condizionare in maniera decisiva le prossime elezioni fissate per il 7 ottobre. Per questo il magistrato è intervenuto con la massima energia, imponendo la chiusura del sito per 24 ore. Ma il caso pone interrogativi inquietanti ben oltre le frontiere dell´Amazzonia: come tutelare la democrazia dal rischio di filmati costruiti ad arte, in grado di distruggere la reputazione di un candidato? Ma, al contrario, non si può passar sotto silenzio che l´uso “eversivo” di You Tube e Twitter ha reso possibile la diffusione delle proteste contro le dittature del Medio Oriente ha dato fiato alle proteste in Iran, Russia o nella stessa Cina, pure molto attenta a vigilare sui new media con un formidabile apparato censorio.
Difficile dare una risposta facile alla questione che cade nell´imminenza del processo di appello di “Vividown”, la causa milanese che oppone i genitori di un handicappato che, per due giorni di fila, chiesero invano a Google di ritirare un video che ritraeva il figlio sbeffeggiato a scuola. In primo grado nella corposa sentenza di condanna dei dirigenti di Google (sei mesi di reclusione con sospensione della pena) il giudice italiano scrisse che “non può esistere la sconfinata prateria di Internet ove tutto è permesso e niente può esser vietato”. Ma la sentenza italiana non ha smosso di un millimetro le posizioni dl colosso Usa. Né avrà sorte diversa il diktat in arrivo dal Mato Grosso.
A Mountain View, del resto, in questi giorni sono troppo impegnati a festeggiare l´ultimo primato: Google è passato in testa nella raccolta di pubblicità sullo schermo online, sorpassando Facebook, gli altri social media e i siti più cliccati.