Skip to main content

Il grilletto turco sulla polveriera siriana

La decisione del Parlamento turco di affidare pieni poteri al primo ministro Erdogan per intervenire fuori confine, per quanto osteggiata dall’opposizione del Partito repubblicano del popolo di matrice kemalista, introduce un elemento di rischio difficilmente calcolabile. Il fatto che il disegno di legge fosse stato presentato a settembre, quindi prima dell’incidente di mercoledì scorso, non allevia le preoccupazioni. In realtà, già dai primi di settembre, il sito israeliano Debka informava che ufficiali turchi si trovano al comando di due brigate antigovernative nel Nord del Paese, un’area su cui il controllo di Damasco sembra già piuttosto limitato.
 
La Turchia, da questo punto di vista, non farebbe che capitalizzare sullo sfarinamento di alcune componenti della Free syrian army segnalato nelle settimane scorso dal ritorno nelle fila del governo di alcuni ex-ribelli. A questo rimescolamento di carte potrebbe non essere estraneo un fatto relativamente nuovo: l’ascesa dell’Egitto come potenza moderatrice dell’espansionismo islamista-sunnita o addirittura come possibile broker di un accordo regionale che non isoli Teheran. Il tutto mentre gli Stati Uniti continuano a opporsi allo scenario di intervento militare e al coinvolgimento diretto della Nato, ipotizzando che entro sei mesi l’edificio siriano crollerà da sé.
 
È la stessa prudente valutazione tedesca, ma filtrata da altri interessi, da altre visioni storiche e regionali. Marcel Pott, esperto di Vicino Oriente, afferma che il vero pericolo è lo scatenamento delle minoranze che potrebbero trasformare il conflitto in una crisi mondiale. Alla sistemazione del problema curdo, infatti, sarebbero interessati tanto gli Stati Uniti, che in Iraq non sono riusciti a realizzare un compromesso nazionale soddisfacente per la minoranza curda del nord, quanto la Russia, che attraverso uno Stato curdo potrebbe controllare meglio l’asse Turchia-Georgia. Una convergenza russo-americana su questo quadrante chiuderebbe l’arco nord del Medio Oriente alla penetrazione europea, una linea cui tutte le potenze del Vecchio continente sono interessate.
 
Per questo, sottolinea Die Zeit, l’appoggio Nato alla Turchia in questo momento è, più che una “carta bianca”, una forma di controllo e condizionamento verso un “partner difficile” di cui si sottolinea in chiave negativa la rottura dei rapporti con Israele. È una lettura interessante perché esiste il rischio che Ankara ricorra al “fatto compiuto” per avanzare sul terreno e far valere, ben oltre la fascia di sicurezza di 10 km concordata con Washington, la carta del ritiro dai territori in vista dei negoziati con l’Unione europea. A quel punto, la gestione di questo tavolo diverrebbe prioritaria rispetto all’attuazione delle riforme democratiche invocate dall’Unione europea. Uno scenario che l’Europa deve evitare, non assecondando gli eventi, ma cercando di forgiarli.
 
Chi può, però, concretamente guidare questo processo? Più assertivi di inglesi, francesi e italiani sembrano in questo momento i tedeschi, che hanno perfino inviato una nave al largo delle coste siriane per monitorare gli eventi. Gli storici legami con la Turchia, cementati dalla presenza di una forte minoranza curda in Germania, fanno di Berlino il maggiore cointeressato alla gestione della crisi. Qui è anche presente la più importante frazione europea favorevole all’adesione della Turchia alla Ue, cappeggiata dall’ex ministro degli esteri Joshka Fischer.
 
La linea Fischer non è dominante (lo stesso Gerhard Schroeder non l’ha mai sposata fino in fondo), tuttavia, rinverdita dall’appoggio agli albanesi in funzione antiserba negli anni Novanta, rappresenta la continuità di una forte tradizione post-bismarckiana di sostegno all’elemento turco-islamico come veicolo dell’influenza germanica nei Balcani. È un test difficilissimo per le legittime aspirazioni internazionali tedesche. Eppure la volontà politica a Berlino non manca, come evidenziato dai numerosi incontri e dibattiti, e dalla stesura di un vero e proprio programma economico per il dopo-Assad. E se il cambiamento in Siria verrà gestito in modo diverso dalla Siria, sarà anche merito della Germania.
 


×

Iscriviti alla newsletter