“Un uomo dal cuore giovane, proteso al futuro”. Così Andrea Riccardi, già ministro per la Cooperazione internazionale del governo Monti, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, professore ordinario di Storia contemporanea e conoscitore della realtà ecclesiale italiana e universale, spiega il tentativo di Papa Francesco di ridare speranza alla Chiesa prima di tutto, ma anche al mondo dei non credenti, il suo stile “diplomatico”, la rottura di alcuni schemi, la corsa verso le “periferie” dell’uomo. Riccardi ne parla con Formiche.net, a poche settimane dall’uscita del suo nuovo libro La sorpresa di Papa Francesco. Crisi e futuro della Chiesa (Mondadori, pagine 209, euro 17).
Professor Riccardi, in che senso nel suo libro Lei parla di “sorpresa” di Papa Francesco”?
Già prima di partire per il Conclave, in omaggio a quanto stabilito dal Codice canonico, il cardinale Bergoglio si era dimesso da arcivescovo di Buenos Aires, avendo compiuto i 75 anni di età. Ma la sua elezione, a 76 anni, in un momento di smarrimento della Chiesa dopo la rinuncia di Benedetto XVI, fin dalle prime parole pronunciate dalla loggia di San Pietro, fu subito percepita come l’irruzione del futuro, che dalla Sistina si irradiava nell’intero corpo ecclesiale. Un uomo dal cuore giovane, proteso al futuro, veniva dal “continente giovane” a dare un nuovo futuro alla Chiesa. La seconda sorpresa fu, subito dopo, la scelta del nome Francesco, il nome della semplicità e dell’amicizia; un nome che suona come il programma di una Chiesa che esce dai palazzi e va per le strade, a incontrare gli uomini e le donne. Il programma di una Chiesa povera, amica dei poveri. Francesco “è per me l’uomo della povertà, l’uomo della pace, l’uomo che ama e custodisce il creato”, disse subito dopo. Con l’elezione di Papa Francesco si è manifestato un atto di freschezza, di giovinezza spirituale della Chiesa. Questo è il senso della sorpresa.
Cosa intende quando dice che la Chiesa non sa più essere profetica?
Nel mio libro non dico questo. Ritengo tuttavia che nella Chiesa si è vissuta, come ha scritto padre Turoldo in una bella poesia che cito nel mio libro, una crisi di speranza, quasi la percezione che la “profezia” della Chiesa si sia affievolita. La crisi della profezia è infatti anche crisi di speranza. E Papa Francesco ha scelto di ridare speranza, attraverso il servizio alla Parola di Dio, comunicata con semplicità e simpatia.
Wojtyla aveva la forza della fede e viene ricordato, talvolta impropriamente, come il vincitore del comunismo. Ratzinger possedeva, e possiede, la profondità della ragione e da molti viene considerato come il grande sconfitto dalla cultura secolare. Qual è la missione di Bergoglio?
Bisogna guardarsi dai giudizi affrettati su figure come quella di Giovanni Paolo II, che è stato una personalità decisiva del secolo scorso e del passaggio al nuovo millennio, e di Benedetto XVI che è stato un maestro della Chiesa cattolica ed ha mostrato un’umiltà straordinaria con il gesto sorprendente delle dimissioni. Quel che è certo, è che Papa Francesco ha raccolto l’eredità di questi due grandi papi, in un momento di difficoltà per la Chiesa. L’impressione era di un cristianesimo un po’ ingrigito. Il compito che il Papa appena eletto si è dato è stato quello di far uscire la Chiesa dalla propria autoreferenzialità, per incoraggiarla a camminare per le strade del mondo. La scelta di non abitare nel Palazzo Apostolico ma in un luogo aperto, a contatto con altri vescovi e sacerdoti, mostra il suo desiderio di incontro con le persone. Ciò trova conferma nelle udienze in piazza San Pietro e in molte altre occasioni. Il Papa ritiene che la Chiesa debba uscire da se stessa, collocarsi nelle “periferie” umane ed esistenziali che sono l’altra faccia, quella più immediatamente percepibile, spesso alienante, della globalizzazione.
Nel suo libro Lei lega molto la crisi della Chiesa alla crisi dell’Europa. Perché? Non è una smentita del ruolo universale della Chiesa?
La nascita dell’Unione dell’Europa è stata la risposta alla catastrofe della seconda guerra mondiale, che ha trascinato con sé non solo il continente ma il mondo intero, ma ancora, purtroppo, il processo di integrazione politica del vecchio continente, è incompiuto. La crisi economica che ha segnato l’inizio del nuovo millennio ha diffuso un certo pessimismo sulla tenuta della sua moneta e sul futuro dell’Unione. La crisi dell’Europa, il suo invecchiamento demografico e le sue difficoltà politiche, fanno respirare un’aria di declino che in qualche modo si intreccia con la vita della Chiesa, la più antica istituzione europea. Papa Francesco ha da subito assunto un atteggiamento di decisa rottura di fronte a questo atteggiamento, recuperando proprio il ruolo di pastore universale della Chiesa.
La pace sembra essere un punto chiave nell’agenda di papa Francesco. La Chiesa sta riacquistando quel ruolo nello scenario internazionale che sembrava avere un po’ smarrito?
Papa Francesco ha raccontato che il pensiero delle guerre è stato fra i primi ad occupare la sua mente quando l’applauso dei Cardinali ha salutato la sua elezione. Dunque, la pace è certamente un punto chiave della sua agenda; e lo strumento basilare per costruire la pace è il dialogo, il dialogo “via della pace”, come ha detto ai partecipanti all’Incontro internazionale promosso dalla Comunità di Sant’Egidio; il dialogo che è anche il “canale di comunicazione tra la Chiesa e i popoli”. Papa Francesco invita tutti a farsi operatori di pace, ad assumere il ruolo del mediatore di pace, diverso da quello dell’intermediario che cerca anche il proprio guadagno. Il mediatore è colui che, “per unire le parti, sacrifica se stesso, nella logica della carità, fino a perdere tutto perché vinca l’unità, perché vinca l’amore”. Qui dunque c’è anche uno stile “diplomatico”.
Siamo in presenza di nuove “Ostpolitik”, verso il mondo islamico, verso la Cina, ma anche verso il mondo dei non credenti? Lei cosa ne pensa?
Sono trascorsi appena sette mesi dall’elezione di Papa Francesco ed è difficile dare definizioni di un pontificato che è iniziato da così poco tempo. Il Papa non ha esposto le sue intenzioni in un documento programmatico. Quel che però si può già dire con certezza è che le relazioni con il mondo islamico e in generale con le religioni e con il mondo delle culture umanistiche saranno improntate allo “Spirito di Assisi”, cioè a quello spirito che animò la preghiera per la pace che Giovanni Paolo II inaugurò nel 1986 – ancora in piena guerra fredda – e che l’allora cardinale Bergoglio ebbe modo di definire una “sfida della convivenza tra culture e religioni diverse, che richiede uomini di fede profonda che sappiano scrutare e interpretare i segni dei tempi”. Per quanto riguarda poi i rapporti con gli Stati, è significativa la nomina di monsignor Pietro Parolin a nuovo Segretario di Stato, un uomo che viene dalla tradizione diplomatica della Santa Sede, dalla scuola del cardinal Casaroli, collaboratore di Giovanni XXIII e di Paolo VI e Segretario di Stato dello stesso Giovanni Paolo II. Una tradizione diplomatica non disgiunta dall’impegno pastorale.