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Le vulnerabilità del rapporto Usa-Pakistan

Pubblichiamo un articolo di Affari Internazionali

Il recente avvicendamento ai vertici del gruppo terroristico “Tehreek-e-Taliban Pakistan” (Ttp) sembra allontanare l’ipotesi di negoziati con il governo. Tornano in discussione le relazioni con gli Stati Uniti, accusati di aver sabotato il nascente dialogo di pace, ma la crisi economica costringe Islamabad ad evitare la rottura.

NUOVI VERTICI
Il primo novembre, l’attacco di un drone americano ha provocato la morte di Hakimullah Mehsud, leader del Ttp dal 2009. Gli è subentrato il Mullah Fazlullah, a capo dei talebani nella valle dello Swat (Khyber Pakhtunkhwa), noto alle cronache per aver ordinato l’uccisione della giovane attivista Malala Yousufzai. Non trattandosi di un esponente della tribù Mehsud, zoccolo duro del movimento, la sua nomina ha destato sorpresa, evidenziando il persistere di profonde divisioni all’interno del Ttp.

Sebbene il movimento mantenga buone capacità operative – nel mese di settembre si è registrato un record di vittime per attacchi terroristici di oltre 490 – la nomina di Fazlullah potrebbe accelerare le dinamiche centrifughe già in atto. Ulteriori dubbi sulle capacità di Fazlullah di esercitare un effettivo controllo sul gruppo derivano dal fatto che non vive in Pakistan, ma nella provincia afghana del Nuristan. Questo potrebbe consentire ad altri elementi del Ttp di sottrarsi alla sua leadership, mettendo a forte rischio l’unità del gruppo.

Tale elemento rischia anche di complicare ulteriormente le relazioni tra Islamabad e Kabul. Le autorità pakistane, infatti, hanno già in passato accusato l’Afghanistan di sostenere il Ttp. Il rischio è di portare le tensioni tra due paesi su livelli molto elevati, riducendo ulteriormente le possibilità di successo dei negoziati con i talebani afghani.

AMBIGUITA’
All’indomani della sua nomina, il Mullah Fazlullah ha respinto ogni ipotesi di dialogo con il governo, in ragione della presunta subalternità delle autorità pakistane rispetto agli Stati Uniti.
Il raid del primo novembre ha creato non poche difficoltà all’esecutivo di Islamabad, la cui agenda politica conteneva i negoziati con il Ttp tra i suoi punti principali.

Esso inoltre, è giunto a poca distanza dalla visita alla Casa Bianca del premier Nawaz Sharif, evento in occasione del quale questi aveva chiesto agli Stati Uniti l’interruzione degli attacchi con i droni in territorio pakistano. La dura reazione del governo all’operazione Usa rappresentava, dunque, un atto necessario a salvaguardarne la legittimità e l’autorevolezza agli occhi dell’opinione pubblica, oltre che a mettersi al riparo dagli inevitabili attacchi di alcune forze di opposizione.
Al di là delle dichiarazioni ufficiali, sorgono, tuttavia, alcuni dubbi circa la reale posizione del governo di Islamabad. Con l’avvicinarsi delle operazioni di ritiro dall’Afghanistan riesce infatti difficile pensare che l’amministrazione Obama possa aver trascurato di considerare la chiusura dei valichi come possibile azione di rappresaglia da parte di Islamabad (come avvenuto nel 2011, in seguito all’uccisione di Osama bin-Laden).

Sebbene il Ttp sia considerato un potenziale rischio per la stessa sicurezza nazionale degli Stati Uniti e si sia in passato reso protagonista di attacchi contro i suoi cittadini in Afghanistan, l’operazione del primo novembre non sembra paragonabile – in termini di ripercussioni sul piano operativo e, soprattutto, mediatico – al raid contro l’allora capo di al-Qaeda. La Casa Bianca, dunque, potrebbe aver ricevuto una qualche rassicurazione dalle autorità pakistane. Il silenzio dei militari – da sempre scettici di fronte all’ipotesi di negoziati con i talebani – sembrerebbe avvalorare tale ipotesi.

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Daniele Grassi lavora come security analyst per Infocert.

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