Per uscire da questa maledetta crisi non ci servono economisti, che non ne indovinano mai una salvo che a cose fatte quando sono bravissimi a ricostruire il modello sopra l’originale. E meno che mai abbisogniamo di politici. Quelli, poi, non ne indovinano una né prima, né dopo e manco durante.
Quello che ci serve è una bella impresa edile. Una squadra di mastri che con tanto di sacchi di cemento fatti barchetta e calzati sulle teste, si mettono di cazzuola e impasto a tirare su il Muro di Berlino. Il mondo va ridiviso in buoni e cattivi. Ognuno, poi, si accasa dove gli pare. L’Europa la si rimanda sotto quella bella cappa grigia di anonimato diplomatico in cui era stata per decenni. E, soprattutto, si riconsegna la Germania alla sua psiche post-bellica, quello stato di perenne espiazione che l’aveva resa dal dopoguerra in avanti conciliante sul piano diplomatico. Essendo sconfitta aveva la voce in capitolo degli sconfitti. La Germani, come tutti i cattivi, si rende gradevole solo quando sta male.
La tesi esposta è certamente poco attuabile. Anche perché la storia si muove su di un dominio che è parabolico dove tutte le variabili mutano nel tempo senza che ciò che accade oggi può influenzare, inesorabilmente, ciò che è già accaduto. Pur tuttavia permette di fare qualche riflessione.
Ad esempio, riflettere sul fatto che fu proprio all’indomani della caduta del Muro che la Germania tornò a fare la Germania. A sentirsi potenza e quindi impero. Dal dopoguerra, fino alla fine degli anni 80, la Germania aveva vissuto confinata in un angolo dello scacchiere geopolitico mondiale. E aveva sfruttato questo basso profilo per concentrarsi sullo sviluppo interno, industriale ed economico, pubblico e privato. Tornando a essere un’economia prospera e florida.
Con la caduta del Muro e per via del conseguente liofilizzarsi del blocco bipolare USA-URSS, l’Europa è tornata a rappresentare un soggetto geopolitico e così la Germania vide risvegliare nel suo grembo l’istinto di potenza.
Fu allora che la Germania iniziò a manifestare il suo disappunto rispetto al fatto che le lingue ufficiali all’interno della Comunità Economica Europea fossero soltanto l’inglese e il francese. I tedeschi, che erano già ottanta milioni, erano la schiatta più numerosa del continente europeo. E pertanto non si sentivano legittimamente rappresentati a mezzo ugola.
Fu allora che la Germania iniziò a manifestare il suo disappunto rispetto al fatto di non sedere al tavolo del Consiglio di Stato. Non c’era perché nazione sconfitta nella seconda guerra mondiale.
E fu allora che, di fronte alla crisi balcanica, la Germania assunse una linea completamente in controcorrente rispetto a quella occidentale di Usa, Gran Bretagna e Francia. La Germania, infatti, a differenza degli altri paesi era favorevole a un’autonomia di Croazia e Slovenia e contraria alla nascita di una federazione delle repubbliche jugoslave. Le ragioni teutoniche trovavano spiegazione negli interessi commerciali della grande Germania che storicamente, (anche all’alba del primo conflitto mondiale), vedeva nei paesi jugoslavi affacciati sull’Adriatico una delle sue linee di espansione egemonica.
Fu in questo contesto che la cosiddetta Europa dei dodici si riunì a Maastricht. Nella sala del Provinchiehuis, surrealmente addobbato a festa. Sic!
Una Germania che tornava a fare la Germania, potente dal punto vista economico e industriale si sedeva a un tavolo con undici nani. E paradossalmente a essere meno d’accordo sui punti del trattato, non erano i nani ma proprio la Germania. Kohl dovette fronteggiare una forte resistenza interna che veniva dalla Bundesbank e dai potenti Laender. Firma fu, però. Con tutto quello che ne conseguì.
A rileggere i giornali di allora, è evidente come, qui da noi, la decisione di aderire all’Unione Europea (1992) e di intraprendere il cammino per giungere, cinque anni dopo, all’unione monetaria (1997) non fu il risultato di un dibattito politico. Le forze politiche di allora erano tutte d’accordo. Chissà come mai.
La stampa Italiana, all’indomani della firma del Trattato di Maastricht, dedicò alla notizia articoli in pagine molto secondarie dei quotidiani. Il Ministro degli Esteri dell’epoca De Michelis intervistato, appena dopo la firma, diceva: “Saranno cinque anni duri”. Ecco! Sono già stati almeno ventuno.
A cose fatte, la ratifica del Trattato avvenne il 7 Febbraio, solo il 27 Febbraio, su Repubblica si trova, finalmente, un lungo editoriale, a firma Mario Monti e Luigi Spaventa, che mette in evidenza l’onerosità del costo del biglietto per entrare a far parte dell’unione monetaria: ben 80 mila miliardi di Lire.
Eppure, malgrado fosse così chiaroquanto fosse difficile per l’Italia aderire alla moneta unica europea, i nostri governanti di allora immolarono l’Italia laddove cadde perfino D’Artagnan.
In questi ultimi giorni si stanno moltiplicando sui media gli approfondimenti sul tema dell’Euro e sui vincoli di finanza pubblica condivisi a Maastricht. La prospettiva è di trovare soluzioni politiche alternative perché i singoli stati membri, in particolari quelli con i fondamentali macroeconomici peggiori, possano ritrovare la perduta sovranità barattata in nome del contenimento dell’inflazione questione assai cara dalle parti di Bonn e Francoforte.
In particolare: Il Foglio, con gli interessanti lungometraggi del Prof. Guarino, e Anno Zero, qualche giorno fa, con le riflessioni analitiche del Prof. Bagnai.
Dato che allora, alla vigilia del 1992, non vi fu un robusto dibattito politico perché si creò un clima favorevole bipartisan, non credo sia auspicabile che oggi, analogamente, si crei un clima altrettanto omogeneo di disappunto verso l’unione europea e la moneta unica, magari per cavalcare, per un puro calcolo politico interno, gli umori di un paese in affanno.
Stare nella stessa Europa di una Germania che gioca, senza essere tra i vinti, non è possibile. Bisogna, però, avere autorevolezza e metabolizzare all’interno di un dibattito politico la questione.