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La Linea: quante cose ci dice uno spot

Siamo alla fine degli anni 60 quando Osvaldo Cavandoli, moderno Geppetto, costruisce, svuotando il pieno, il suo Pinocchio. La Linea, il personaggio che per vent’anni animerà tantissime storie e situazioni, frutto della fantasia del grafico lombardo.
Cavandoli presenta le vicende del suo Signor Linea alla Rai per Carosello. Dopo poco tempo, La Linea riceve le attenzioni dell’Ingegner Lagostina, proprietario dell’omonima azienda leader nella produzione di pentole a pressione. Quell’incontro segnerà la fortuna di Cavandoli e del suo personaggio che diventerà simbolo di un’epoca.

La Linea di Osvaldo Cavandoli nel primo spot della pentola a pressione Lagostina

Che tempi quei tempi in cui la fantasia e la creatività erano capaci di produrre idee, storie con la semplicità del tratto che, attraverso lo srotolarsi di una linea che crea la forma prendendo al cappio lo spazio, lo recinta dentro forme che nel loro mutare, fotogramma dopo fotogramma, esprimono il movimento. E il movimento, che del tempo è il fratello germano, permette di cogliere nella mutata forma, nella mutata espressione, la piega del carattere del personaggio, il precipitare di una situazione piuttosto che il suo volgere al meglio.
Le storie de La Linea entrano nelle case degli italiani per la loro semplicità, per la loro brevità, e per quella capacità di colpire, divertendo, l’immagicità degli spettatori.

In fondo questa linea figlia di una mano e di una matita, che vive percorrendo il destino che la attende al fondo del tratto della linea, di cui è essa stessa parte, permette allo spettatore una leggera e immediata immedesimazione. Pensate ad esempio a quando il personaggio si volta verso l’esterno del piano del foglio, che è il suo universo, per dialogare con il suo genitore. Con quella parlata in grammelot dall’inflessione milanese, altra trovata geniale, La Linea pare di volta in volta, di situazione in situazione invocare l’aiuto del suo genitore e Deus Ex Machina. Un po’, appunto, proprio come capita a ognuno di noi, in certe situazioni, quando la ruota del destino pare non voler girare per il verso giusto.

C’è in questo personaggio una capacità espressiva che ricorda, per certi versi, quel polimorfismo tutto disneyano. Ricordate, nella casa degli spettri, gli scheletri che ballano in uno scatenarsi di ossa, attaccate le une alle altre, e che a un certo momento, ciascuno con una tibia in mano, si mette a suonare battendosi sulle proprie costole trasformate in xilofono.
O ancora, l’albero battuto dal vento fuori dalla casa che, con il piegarsi e la forma di quei rami adunchi come mani ossute, non racconta solo del vento e dell’inverno, ma trasmette l’immagine, proprio, di un luogo spettrale.

Ecco La Linea ha la stessa capacità artistica, attraverso le tecniche della grafica, di parlare con quella sfera pre-logica degli spettatori, quella che ha avuto la fortuna di scampare all’evoluzione Darwiniana. Quella più intimamente legata alla natura e alle sue mutevoli forme dalla perfezione, al contempo, naturale e spirituale.

Come tutte le cose ben riuscite, i racconti de La Linea sono anche capaci di resistere al tempo. Tanto è vero che nel primo episodio, quello del 1969, La Linea lungo il suo cammino s’imbatte in una serratura verso la quale si sporge. A testimonianza di come un certo voyeurismo fu ed è un vizio italico, marchio di fabbrica anche quello.

Sul finire degli anni 80, gli anni che coincisero con l’uscita di scena de La Linea, si assiste al proliferare di spot in cui i testimonial venivano dal mondo del cinema, della TV. Dotati d’immensa popolarità. Molto poco finivano con il contare lo storyboard dello spot, la proposta, la giustificazione e qualsivoglia liturgia comunicativa. Bastava urlare più forte. D’altronde, il moltiplicarsi degli spazi commerciali sui media, in particolare sulla TV, di pari passo a un consumismo sempre più scriteriato, spinto dalla munifica politica dei redditi dei pentagruelici governi di allora, ha finito con l’avvelenare anche l’immaginario erodendo il fanciullino di grafici e creativi emarginati a trovare ora un calembour ora una battuta di spirito possibilmente mutuando il tema da un tormentone del tempo per assicurare al cliente uno strillo più strillato. Tant’é.

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