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Quella sinistra caviale di D’Alema e Scalfari

C’è la pasta coi pomodori al forno di Roberta Carlotto, ex direttore di Radio Tre, gran cuoca e moglie di Alfredo Reichlin, leggendario dirigente del Pci che ancora oggi le dice, “Ah, quanto era più buona quella della mamma”. Presenza fissa, quella pasta, non tanto del “Natale in casa Reichlin” (tragicommedia non dissimile da quella di Eduardo De Filippo), quanto di tutte quelle volte in cui gli Scalfari e i D’Alema vanno in pellegrinaggio dal padre fondatore per confrontarsi sul simpatico Pd. C’è soprattutto il caviale, tantissimo, perché non si pensi che l’espressione “gauche caviar” sia solo figurata. Caviale che oggi – perché la crisi, si sa, colpisce tutti – è rosso, russo e si mangia con i blinis, ma una volta era Beluga, sostituiva torrone e tortellini e veniva preferito, come investimento, a Bot e Cct.

Caviale e altre storie di cinquant’anni di sinistra a tavola, che Livia Aymonino, classe 1956, figlia di Carlo, celebre architetto e urbanista comunista, e moglie di Silvio Sircana, ex braccio destro di Romano Prodi, racconta nel volume “Sapori di versi – Ricette in rima e pensieri in cucina” (Mursia Editore, 304 pp., euro 16). Il primo ricettario in rima baciata, dalla colazione al dolce. Sinistra di apparato ma anche scapigliata, che la Aymonino riceve una volta al mese e di cui conserva memorie “ricattatorie” in una ventina di Moleskine formato A4 che tiene accanto al letto. Del resto a ricevere ha iniziato già al liceo, quando con il roommate Enrico Parlato, figlio di Valentino, metteva insieme fricchettoni e futura nomenklatura cui serviva pastoni con i broccoli e Campari. Guai a chiamarla, perciò, l’Angiolillo di sinistra.

Insomma, la sinistra al caviale era tutt’altro che metafora.

Quand’ero bambina esistevano due categorie di comunisti. Una mangiava i bambini, l’altra il caviale. Io, per fortuna, appartenevo alla seconda. Si partiva dal principio filosofico che il caviale si può anche non mangiarlo mai, ma quando lo mangi deve essere tanto, altrimenti non vale la pena. Fra gli anni Sessanta e i Settanta, tutto sembrava possibile all’intellettuale di sinistra, compreso il conciliare il comunismo col caviale, Capri col funerale di Togliatti, la Jugoslavia di Tito e le abbuffate di aragosta. Contraddittori sì, ma goduriosi sempre.

Com’erano le cene di Natale quando era bambina?

C’era la prima famiglia di Alfredo, allora il miglior amico di mio padre, quando ancora non gli aveva soffiato la moglie. E aspettando mezzanotte si giocava al Gioco dell’Oca disegnato da papà, che finiva in un mappamondo dominato da una grande Falce e Martello dorata con su scritto,Il mondo è comunista, il denaro non ha più valore, puoi prendere tutto! Abolita definitivamente nel gioco, tanto che io, bambina, mi chiedevo come avremmo fatto a dividere quelle scatolette di caviale con tutti i comunisti proletari d’Italia, la proprietà privata aveva poco valore anche nella realtà. Mio padre si è speso tutto da Cipriani, all’Harry’s Bar: a noi ha lasciato solo debiti e il manifesto di Stalin. Ma allora non si pensava a mettere da parte per i figli. Nessuno possedeva case di proprietà. Il rapporto con la realtà era caviale nero e casa in affitto.

Non roba da parvenu, diciamo, come le scarpe di D’Alema e i cachemire di Bertinotti.

Papà e Alfredo erano classe dirigente a ventott’anni: non dovevano dimostrare nulla. La mia generazione era già più in difficoltà. Nel 1977, secondo anno di vita di Repubblica, andai da Scalfari a chiedergli un lavoro: mi disse che non poteva più assumere nessuno.

Anche la proprietà dei sentimenti, allora, aveva poco senso. La sua famiglia, in quanto a intrecci amorosi, è roba da far invidia a Beautiful.

Mettiamola così: la sinistra dissipante produceva anche tantissimo pensiero, ma il fermento non era solo intellettuale. Mio padre divenne comunista sui vent’anni, dopo essersi invaghito di Luciana Castellina. Lei era la principessa di sinistra, un Don Giovanni in gonnella, esotica e bellissima. Sposò Alfredo, da cui ebbe Lucrezia e Pietro. Ogni anno passavamo insieme le vacanze: in Jugoslavia, in Grecia, a Capri, ovunque fosse intellettuale, gaudente e di sinistra. Papà, invece, dopo una separazione complicata da mia madre, Ludovica Ripa di Meana, si era messo con Roberta, da cui ha avuto mia sorella. Abitavamo al rione Monti (storico quartiere di sinistra romano), dove venivano da Italo Calvino a Lucio Colletti, Miriam Mafai, Bruno Trentin, Vittorio Sermonti, altro grande amico di mio padre, che poi sposò mia madre, Vittorio Foa e Valentino Parlato. Era una casa aperta. Si presentava anche Paolo Liguori. Che allora era un capellone e si chiamava Straccio, ed era animatore di quel gruppo anarchico-situazionista degli Uccelli che contestava i borghesi di sinistra irrompendo nelle loro case per orinare nei salotti. Più tardi Roberta andò a vivere con Alfredo, ma nonostante ciò continuammo, e continuiamo, a vederci tutti insieme. Non ricordo un gran volare di piatti, anche se ce ne sarebbe stato ben donde. Uno psicologo, con noi, avrebbe fatto dei miliardi.

Oggi le sue cene come sono?

Possedute dal perfezionismo, ma mai strategiche. E non sempre di buon auspicio. Come quella con i giornalisti al seguito di Romano, nella primavera del 2008. Non li avevo mai invitati: lo feci e un mese dopo cadde il governo. A volte le cene sono anche l’occasione per scommesse elettorali. Come quella su Scelta Civica, ai primi di gennaio di quest’anno. Lelio Alfonso, già ufficio stampa del governo Prodi, all’epoca nello staff di Mario Monti, sparò un 24%, Paolo Mieli disse il 12%, mio marito il 10%. Presero l’8,30%, e a metà aprile facemmo la cena di ritorno. Menù appropriato: tra un macco di fave con gamberoni al pepe rosa e seppioline con cipolle caramellate, uno sformato di semolino.

E se una di queste sere venissero a cena da lei i tre candidati alle primarie dei Pd, Matteo Renzi, Gianni Cuperlo e Pippo Civati, cosa servirebbe a loro?

Tre polli allo spiedo.

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