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Non basta piangere

Il titolo di Aldo Cazzullo è una locuzione d’amore. E’ la frase che la mamma gli diceva quando lo vedeva triste: “Basta piangere”. E’ quello che l’autore si sente di dire ai suoi figli e alle nuove generazioni perché il presente, per costruire il futuro, deve nutrirsi di ottimismo, speranza e immaginazione e non a uno sfiduciato destino.
Il fatto è che a leggere il libro di Cazzullo non capisco a che pagina i lettori, e non gli acquirenti del libro, i secondi saranno un ordine di grandezza di più dei primi, dovrebbero trovare questa siepe oltre la quale spingere immaginazione e speranza. Proprio non capisco come possano diventare libri collezioni di appunti oleografici che, con la patente dello sfondo storico, non sono altro che la cronaca differita dello sbiadirsi dei ricordi degli anni dell’adolescenza dell’autore. Sono sicuro che Aldo Cazzullo, che non è certo inferiore per intelligenza a un Arnon Grunberg, l’anno prossimo, sotto le mentite spoglie di un Marek Van Der Jagt, dalla biografia meno patinata del più famoso e noto alter ego che ha solo il cruccio di non vedersi affidato un programma TV, potrebbe divertirsi a inviare lo stesso manoscritto a un’altra casa editrice italiana per verificare la resistenza al tempo della sostanza del contenuto animata dal suo periodare.

Il solco dell’editore, Mondadori nella fattispecie, è quello già seminato con altri titoli, come tanto per dire “Spingendo la notte più in là” di Mario Calabresi. La parola d’ordine del mainstream “letteragliatura da crisi”, rigorosamente post-ideologico, è diffondere ottimismo. E se ad accompagnare Calabresi c’era Jovanotti che era ed è tuttora il prescelto da certo establishment culturale come testimonial capace di parlare alle nuove generazioni, con Cazzullo c’è Matteo Renzi. Pensa positivo perché sei vivo, perché sei vivo.
Beh, posso dire che tutto questo mi fa orrore? Trovo che questa editoria sia impazzita. Vittima delle sue paure di non arrivare, idealmente, al suo fine mese. Nel vicolo cieco dei talent, dell’incapacità di decidersi se selezionare l’offerta o adattarsi alla domanda. Sotto lo scacco dei direttori marketing e dei direttori finanziari che hanno preso il posto dei direttori editoriali. Un’editoria anomala e non autonoma rispetto a un mediocre capitalismo, quello italiano, che crede poco nel bello, nell’eleganza e nella cultura. Che ha sempre concepito la cultura come strumento di potere e di assegnazione di poltrone.
Non riesco proprio ad andare avanti col libro di Cazzullo perché in questo riavvolgere la pellicola come in una puntata di Chetempochefa tra Fabio Fazio e Claudio Baglioni, con loro due che rievocano i viaggi spensierati sulla Diana, proprio non riesco a fare a meno di rievocare le cose che invece in questo paese, nel tempo, non sono cambiate. Tutti quei vizi di un paese che non è mai diventato nazione in cui questa famigerata creatività italiana che, secondo Cazzullo, può degenerare in furbizia ma che spesso ci porta a risolvere i problemi, è invece degenerata ormai da anni. E’ cifra introiettata nella cultura profonda degli italiani.
Malgrado le strabilianti invenzioni della tecnica che hanno migliorato il tenore e la qualità della vita degli italiani, loro, gli italiani appunto continuano a vivere più o meno come hanno sempre fatto. Quando c’è da trovare un posto di lavoro per i loro figli, si mobilitano e in più del 75% dei casi trovano la spintarella o la segnalazione. Generando un big bang di danni: da una parte chi cerca lavoro non è abituato a sostenere un colloquio di lavoro; chi i colloqui li deve fare non è capace di selezionare. Non stupiamoci perché poi si ha spesso la sensazione che in ogni posto di lavoro ci sembra esserci la persona sbagliata al momento sbagliato. Di tutti questi sedicenti giornalisti e scrittori quanti hanno, rispettivamente, fatto almeno un colloquio di lavoro o sono stati scoperti per strada come dovrebbe essere per gli artisti?

E poi, quando c’è da fare una visita specialistica all’Ospedale, ditemi voi chi conosce qualcuno che abbia almeno una volta telefonato al CUP. Anche qui è tutto un mobilitarsi. Che tanto poi c’è l’amico medico che, un momento lo trova, all’Ospedale, per farti il controllino. Mezza parola.
Al Sud poi non ne parliamo. Appena c’è qualche problema di salute ci si attiva con qualche compare emigrato a Milano e si viene segnalati a qualche luminare. E così nell’epoca delle mille opportunità, gravida di invenzioni fantastiche come i cellulari di terza generazione, dei prodotti Apple, dei social networks, che dovrebbero infonderci un ottimismo allucinato, da Calabria, Sicilia, Basilicata partono le delegazioni che accompagnano il parente malato che, a Milano o a Pavia, va a curarsi. Mentre la sanità delle regioni di partenza costa allo Stato più cara di tutte.
In questo paese, meraviglioso secondo Cazzullo, al Sud si continua a emigrare con ritmi che, se possibile, sono raddoppiati rispetto a dieci o vent’anni fa. Al punto che nei tanti paeselli rimangono vecchi e anziani sussidiati. E che per via del sussidio che va mantenuto, sono legati mani e piedi a quei quattro scappati di casa che, dopo aver provato tutti i lavori possibili, dalla muratura fino all’ausilio del traffico, scelgono la politica. Che effettivamente è l’unica via per risolvere i problemi. Dal particolare all’universale, possibilmente.

Dottore Cazzullo, vossia me lo deve spiegare, ma quali benedette opportunità può avere un giovane oggi solo per il semplice fatto di possedere un telefono cellulare che lo mette in collegamento con tutto il mondo? Per quello che ne so io un telefono cellulare e quindi comunicare è innanzitutto un costo. E’ strumento che mina profondamente la capacità di ascoltare e di concentrazione. Che sta creando individui incapaci di fare la stessa cosa per più di pochissimi minuti. Che non sanno terminare una faccenda o, ad esempio, terminare una pagina di un libro.
Che vantaggi può dare a un giovane internet e questa connettività globale se poi non è capace di fare un’addizione in colonna e non sa spiccicare quattro parole in almeno un paio se non tre lingue?
Che, poi, quando uno dei tanti dispositivi elettronici di cui la sua casa è piena non funziona correttamente non sa fare altro che buttarlo via e comprarne uno nuovo senza ormai neanche provare a capire cosa c’è che non va. Non basta manco piangere, dunque. E mi viene in mente la mia insegnante di Russo, discendente di una famiglia di dissidenti, la quale durante le sue lezioni parla della Russia di trent’anni fa, la Russia da cui è venuta via,  con grande trasporto. Di un paese più povero ma più attento alla cultura. Un paese, fino ad allora, impermeabile al consumismo. In cui, al netto sui giudizi ideologici e storici, era vivo il senso del collettivo. Non a caso in Russo la Я che significa io è l’ultima lettera dell’alfabeto.



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