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Caro Renzi, l’appeal non fa una politica

Più che la segreteria politica di un partito politico (e di sinistra), i dodici che Matteo Renzi ha chiamato a costituire il suo cerchio magico paiono un comitato elettorale per acchiappare voti: nel magmatico partito democratico (che Berlusconi, bontà sua, già definisce “finalmente socialdemocratico”); e in un elettorato sgomi­tante e sempre mobile. I dodici sono tutti giovani (per le abitudini nostrane di avvalersi di loro solo come portaborse), belli e dotati di appeal. Dunque, elettoralmente funzionano. Ma per far cosa, poi, cioè una volta insediati in responsabilità tutt’altro che marginali?

Insomma, come sarà la Repubblica di Matteo, come già Giuliano Ferrara battezza il nuovo aeropago democratico che pare venuto dalla stratosfera musicale, piace per la giovinezza che esprime naturaliter, ha lanciato una sfida aperta all’universo mondo dei vecchi comandi ed è costretta a misurarsi subito con questioni per le quali il giovanilismo, l’astuzia e il volontarismo possono risultare armi spuntate? Lasciando ai giuristologhi disputare, se dopo il voto della Consulta, il parlamento non possiede più (ovvero conserva) agibilità politica, i 12 prodi hanno la forza di dire se si tratta di questione politica e non giuridicista e che pertanto compete ai partiti (e  non solo a quelli che già stanno a cuore al Colle) indicare con quale strumento elettorale e in quali tempi reali, andare a seppellire la XVII legislatura?

La legislatura in atto non soltanto è fondata sul porcellum dichiarato abrogato dalla Corte costituzionale, ma è pervenuto a dare vita ad un esecutivo sulla base di un principio ben presto disatteso: la pacificazione nazionale. Solo in nome di una necessaria pacificazione, Giorgio Napolitano è uscito fuori dal cilindro dei grandi elettori che stavano per perdere completamente il senno. Soltanto facendo proprio l’assunto della pacificazione nazionale, è stato costituito un governo a larga partecipazione di movimenti che avevano sposato l’idea fondamentale di far cessare la guerra civile permanente e ripristinare regole di convivenza e di rispetto reciproco fra partiti che per forza di cose, oltre che logicamente,  non sono assimilabili o omologabili.

Il governo Letta non è più quello votato nel parlamento il maggio scorso. Ha gli stessi ministri, ma non è più sostenuto da quel pilastro dovuto alla volontà politica di Berlusconi. Mentre tutti i gruppi costituenti l’alleanza parlamentare hanno mutato vertici, subito svuotamenti anche rilevantissimi, provocato o subito scissioni comunque alteranti il quadro politico.  Ancora il giorno della sua vittoria Renzi denunciava la contrarietà all’inciucio, termine col quale indicava la strana alleanza attorno a Letta, non una eventuale trattativa per una nuova legge elettorale. E, allora, la Repubblica di Matteo, col suo fresco appeal, a parte i primi convenevoli con Letta, dove veramente ci porta? Qual è il suo modello di Stato? Con chi pensa di regalarci una legge elettorale dove il principio di scelta venga riservato al cittadino e non al Principe? Quando pensa che scatti il massimo di pazienza degli astensionisti costituenti il primo partito nazionale effettivo?

Non si tratta di domande provocatorie. È in gioco, in realtà, la qualità della democrazia italiana. Purtroppo, il solo appeal è insufficiente a guadagnarne una migliore, più credibile e più estesamente votata, prescindendo dalle scelte individuali che devono essere comunque libere e non coartate.

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