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I tre Pd di Renzi

Il titolo di copertina di Formiche mensile – Chi sfiderà Renzi? L’enigma del centrodestra – non è un semplice interrogativo, e neppure un oroscopo per il 2014, quanto una riflessione sul complesso delle questioni emerse nell’anno di elezioni politiche che non hanno soddisfatto nessuno e non possono essere risolte dicendo di volere tutto cambiare per lasciare in piedi l’intero preesistente ordine del disordine.

Renzi rappresenta il giovanilismo trascinatore nell’ambito di un Palazzo d’Inverno a lungo occupato dai postbolscevici. Non pochi osservatori hanno sostenuto che, con la affermazione del sindaco di Firenze si sarebbe finalmente conclusa, dopo venticinque anni dalla caduta del muro di Berlino, l’agonia del comunismo italiano. L’apparenza è quella. Eppure, chi viva sul territorio e sappia guardarsi intorno, e legga le cronache politiche locali e i riverberi del plebiscito ottenuto da Renzi, s’accorge che, piuttosto, di Pd ora ce ne sono almeno tre: non necessariamente ricollegabili coi concorrenti ufficiali alla segreteria.

Basta riflettere sulle parole-chiave usate da Renzi (quel vincere fa venire i brividi e ricorda i nefasti mussoliniani), per accorgersi che il modello di società e di Stato proposti dal Principe fiorentino è parecchio lontano dalla sinistra, anche se lui s’è appropriato di tutti i difetti di una sinistra che ha smesso di pensare da lunga pezza.

Ma l’interrogativo di Formiche non guarda a Renzi quale nuovo segretario del Pd. Proprio il punto di domanda su come reagirà il centrodestra induce a leggere la questione sotto il riguardo del futuro del paese, non di un partito. E, oggettivamente, cessate le sbornie, comincia ad essere chiaro come Renzi sia sempre meno convergente con Napolitano (fatte salve le forme) e non veda l’ora di sostituire Letta a Palazzo Chigi. Sempre oggettivamente, specie considerando le motivazioni con le quali il premier ha chiesto e appena ottenuto l’ennesima fiducia delle camere, è chiaro che, a contendere la corsa al potere di Renzi non potrà essere il vicepremier Alfano col suo seguito di colonnelli senza truppe, mentre lo stesso percorso delle riforme elettorali e costituzionali non è più quello studiato orsono mesi luce da Quagliariello.

Altro dato oggettivo: comunque si giudichi l’abrogazione del porcellum da parte della Consulta, purtroppo ci si trova dinanzi all’ennesima dimostrazione che la politica è totalmente caduta nelle mani della magistratura: che è divisa al proprio interno, solleva discussioni, obiezioni e contrasti fra chi ha operato in essa o vi gira intorno professionalmente, è scaduta ulteriormente nella considerazione dei cittadini, eppure si compiace di reclamare un proprio diritto esclusivo ad indicare la strada graziosamente rimessa al parlamento riconoscendogli il diritto ad avvalersi di una formale votazione elettronica. È questo il principale problema del presente italiano: il magistrato-tutto, irresponsabile ma decisorio in ogni luogo e in ogni cosa.

Su tale distorsione si dovrà pur pronunciare con dignità una politica ripristinata ab imis. Non si può più lasciarsi assegnare sistema di voto, ordinamento costituzionale e alleanze politiche ed economiche nazionali e sovranazionali da piccoli oligarchi privi di mandato politico: anche laddove fossero dei grandi geni. Compete al popolo italiano stabilire come dovrà maturare la nostra comunità e con quali formule è possibile uscirne validamente. È un ritorno convinto alla politica, a cominciare dalle forze di centro, sottorappresentate e sovente afone, assumere l’iniziativa di riforme generali. Riconoscendo il ruolo di tutti i soggetti; ma chiarendo che il magistrato ha un ruolo terzo, non il potere di fare e disfare a proprio implacabile piacimento cosa e come riformare. In democrazia il Principe non è un giudice, ma l’elettore.



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