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Fare affari con la legge. Benvenuti nel formidabile mondo degli avvocati

Pubblichiamo un estratto del libro “La legge degli affari” di Luca Testoni, Elena Bonanni e Felice Meoli edito da Sperling & Kupfer.

Tra le grandi trasformazioni che investono il sistema economico italiano a partire dagli anni Novanta c’è indubbiamente il cambiamento di equilibri tra le due «capitali» del Paese, Roma e Milano. Questa metamorfosi, che si riflette in maniera diretta sull’evoluzione del sistema degli studi legali in Italia, attiene in primo luogo agli aspetti economici, cioè al volume di affari generato nelle due città: di fronte al progressivo venir meno delle risorse erogate dalla capitale politica e istituzionale del Paese, stretta nella morsa dei tagli alla spesa pubblica, prende corpo un progressivo incremento del business nel capoluogo lombardo legato alla finanza e alle connessioni industriali con l’Europa. Nella sostanza, il baricentro si sposta da Roma a Milano. In parallelo, il mutamento di equilibrio è anche la conseguenza di un’evoluzione socioculturale che segue una dinamica opposta: dalla Lombardia, cioè, si aprirà un varco verso sud. A Milano l’internazionalizzazione e la modernizzazione imprenditoriale già negli anni Ottanta e Novanta cominciano a ridefinire gli schemi tradizionali di un’economia personalistica e di relazione, che viceversa si mantiene a lungo intoccata sotto il Cupolone. Qui sono le scosse politiche e istituzionali alimentate dalla serie di crisi economico-sociali del nuovo millennio a favorire una richiesta di rinnovo (si pensi alle spinte anticorporativistiche), che fanno tremare le antiche mura della Roma papalina e cortigiana entro cui hanno prosperato i primi grandi studi d’affari italiani. È una scossa che riduce le distanze dalla Madonnina. E riaccende prospettive nuove sul mondo legale della Capitale.

Dal punto di vista economico, è nella fase di rilancio del Paese, dopo la seconda guerra mondiale, che Roma si gioca al meglio il ruolo di Capitale. È il periodo in cui si ricostruisce l’industria italiana, principalmente attraverso un’economia di Stato le cui leve fanno capo ai grandi enti di gestione (IRI, EFIM, ENI ed ENEL) e le grandi banche. Ma la rapidità della crescita, l’eccesso di ricchezza importata, l’arretratezza culturale che il Paese comunque sconta, e forse anche un’immutabilità politica blindata da equilibri sovranazionali, non favoriscono lo sviluppo di un adeguato sistema di controllo. Roma diventa rapidamente simbolo di malagestione della ricchezza: dalle prime inchieste sulla corruzione (famoso il titolo de l’Espresso del 1955 «Capitale corrotta = Nazione infetta») alla consapevolezza popolare che quello è il «costume» nazionale. Si pensi al film satirico firmato dai principali registi italiani nel 1976, Signore e signori buonanotte, in cui un ministro accusato di aver sottratto miliardi alle mense degli orfani rifiuta di dimettersi «per combattere la mia battaglia da una posizione di privilegio!

Dal mio posto», dichiara il personaggio, «posso agevolmente controllare l’inchiesta, inquinare le prove, corrompere i testimoni, posso insomma fuorviare il corso della giustizia». E tutto questo nel rispetto della legge, «soprattutto quella del più forte. E siccome in questo momento io sono il più forte, intendo approfittarne, è mio dovere precipuo». In tale prospettiva, con l’esplodere della spesa pubblica e la perdita di controllo del debito, è facile trovare consenso al processo di dismissione delle aziende di Stato negli anni Novanta (vedi capitolo terzo).

Per contro, anche prima delle privatizzazioni, a partire dagli anni Ottanta, Milano è già protagonista del boom. Superata l’epoca del triangolo industriale e sulla scia di una laicizzazione dell’economia che fa finalmente sognare un tenore di vita degno della quinta potenza mondiale, in quegli anni la città si appropria del baricentro del Paese. E si guadagna addirittura centralità politica con la conquista di Palazzo Chigi da parte di Bettino Craxi, il quale è poi il primo leader politico, nella veste di presidente del Consiglio, a compiere una visita-omaggio alla Borsa di piazza Affari. Sono i tempi agrodolci «della Milano da bere, del prêt-àporter, della pubblicità».

La capitale lombarda assume i crismi di una capitale della Mitteleuropa e gioca da approdo per le operazioni internazionali. Milano ha infatti caratteristiche strutturali migliori rispetto a Roma, che agli occhi di uno straniero si presenta con gravi ritardi logistici e infrastrutturali: nell’aeroporto laziale ritrovare le valigie è un colpo di fortuna; i tassisti sono impreparati e contrattano il prezzo del servizio come in una piazza mediorientale; la metropolitana è impossibile da sviluppare a causa dei reperti archeologici di cui è piena la città; gli scioperi e le manifestazioni sono quotidiani e complicano la mobilità; gli appartamenti sono inadeguati ed eccessivamente costosi. E poi, in generale, la Capitale esprime una mentalità molto lontana da quella estera e ostile allo sviluppo del business.

È in questa mentalità che si riflette l’altro fattore di squilibrio, oltre a quello prettamente economico, tra le due città. Ossia i differenti gradi di identificazione con un sistema improntato sulle relazioni «di prossimità» o, sotto altra luce, su forme di personalismo facilmente sconfinanti nel clientelismo. Di tale aspetto Roma è indubbiamente indicata come depositaria, per storia e ruolo istituzionale. Viceversa, Milano assume facilmente la bandiera di capitale morale del Paese. Al punto che, negli anni Novanta, neanche il ciclone di Tangentopoli intacca questa narrazione: Milano è capace in poco tempo di trasformarsi in epicentro di Mani pulite, cioè a simbolo del contrattacco giudiziario e del rinnovamento della società italiana. Fenomeno che si traduce in un ulteriore degrado dell’immagine di Roma, responsabile di ospitare e coccolare i partiti (emblematicamente legati al Parlamento e quindi alla Capitale), e come tale bersaglio della rivolta della piccola imprenditoria padana che porta all’affermazione della Lega Nord, prima, e di Silvio Berlusconi qualche anno più tardi. È sulla parola d’ordine «Roma ladrona» che il partito leghista gioca un ruolo chiave «sia nella caduta del vecchio sistema, sia nella gestione del nuovo, allontanando ogni colpa da Milano, spostando l’attacco sulla capitale».

Rispetto alle dinamiche economiche, come detto, sotto il profilo della mentalità il percorso di riequilibrio tra i due poli è inverso. La cultura del business europea che in prima battuta conquista Milano, già per sua natura proiettata a forme di relazioni più trasparenti di quelle papaline, negli anni comincia a bussare alle porte di Roma. Le quali, per effetto di una crisi economico-sociale che richiede nuovi modelli di gestione, cominciano ad aprirsi. Qualcuno attende una rinascita dei poteri centrali e il rilancio degli investimenti di Stato. Qualcosa arriva. Ma in un clima diverso dal passato: la progressiva incidenza dei controlli, la pressione delle direttive europee e l’implementazione di norme richieste dai mercati trasformano lo Stato da Pantalone in Goldrake, pronto ad attaccare e a inchiodare i clienti alle responsabilità (amministrative, fiscali, antitrust). E, sempre più, anche i professionisti (vedi capitolo ottavo). Anche per questo, l’Urbe torna Capitale, almeno per quanto riguarda alcune branche anticicliche del diritto. In qualche modo, Roma sembra oggi vivere tra la propria «eternità» e un mondo che cambia di cui comincia appena ora ad avere consapevolezza.

L’AVVOCATO DI CHE ITALIA ERA…

«Roma è una piazza dove per motivi storici la relazione personale ha da sempre svolto un ruolo determinante nel rapporto studio-cliente.» Così racconta un professionista che per un decennio ha operato in uno studio Magic Circle tra Roma, Milano e Londra. Volendo indicare il valore delle relazioni su una scala da 0 a 10, nella Capitale le relazioni conterebbero oggi ancora 7, ma probabilmente valevano 8 o 9 qualche anno fa. A Milano lo stesso fattore, il legame personale, a giudizio degli avvocati ha sempre portato ad almeno 2-3 punti in meno. Tentare di quantificare l’incidenza di quanto sia stata importante la forza delle relazioni è un esercizio azzardato, ma rivela quanto sia sempre stata presente nei pensieri degli stessi professionisti la diversità di Roma.

L’Urbe è stata la culla delle leggi: «Il diritto romano rappresenta il pensiero fondante dell’esperienza giuridica occidentale e qualifica ancora buona parte degli ordinamenti giuridici moderni europei e di tutti i territori influenzati dalla cultura del Vecchio Continente». Ma è stata anche la città del Palazzo per antonomasia, la «grande cortigiana»4 che ha rappresentato (e per molti versi rappresenta tuttora) l’ecosistema ideale per una professione basata sulla «prossimità» e sulla fiducia. Non a caso il rapporto tra l’avvocatura «tradizionale» (e non di affari) e la politica italiana è stato duraturo, e quella forense è stata la categoria professionale che più di ogni altra si è fatta strada nei corridoi istituzionali (vedi scheda a fine capitolo), ha saputo trarre vantaggio dalla vicinanza ai centri nevralgici del potere e ha sfruttato le zone d’ombra della legislazione per sviluppare un sottobosco di attività che hanno reso sempre difficile l’ingresso di nuovi attori. È stato in questo ambiente «protetto» che si è sviluppato il modello di business della professione forense, quando lo Stato teneva i cordoni dell’economia o ne decideva una parziale allocazione al mercato.

Nella Città eterna, il rapporto cliente-patrono ha garantito per molto tempo quella «rendita da Capitale»5 su cui si sono costruite le fortune dei primi studi in forma associata (Carnelutti, Graziadei, Bisconti, Chiomenti, Ughi e Nunziante, vedi capitolo primo). In seguito, grazie anche a quelle fortune, nel 1993 è stato possibile il balzo in avanti del mondo legale domestico, con la prima liaison tra uno studio italiano, Grimaldi, e uno studio internazionale, Clifford Chance (vedi capitolo secondo). Questa iniziativa ha segnato l’avvio di una nuova epoca. Fatta di crescita, ma anche di innumerevoli tentativi di «colonizzazione» da parte delle firm del Magic Circle le quali, scendendo in Italia, hanno forse trovato proprio a Roma, o nelle consuetudini romane, la maggiore forza di opposizione. Ancora all’inizio del nuovo secolo, i reportage dalla capitale italiana delle riviste specializzate parlavano di «mal di testa» per gli anglosassoni sbarcati vicino alla Fontana di Trevi.6 Nel frattempo, poste le basi per il decollo degli studi d’affari nazionali, Roma ha assistito da lontano al secondo boom del mercato legale (vedi capitolo quinto), divenendo paradossalmente la periferia dell’impero.

A lungo prigioniera di se stessa, di eserciti di avvocati in cerca di business, Roma ha atteso la sua seconda giovinezza. Che, forse, oggi sono i giovani di rientro a sperare di cogliere.


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