A cinquant’anni di distanza (era il 1963) dall’apertura, il Vaticano II non cessa di far discutere. Il che, di per sé, non sarebbe necessariamente un male, anzi. Per chi abbia cura di non applicare alle vicende della fede categorie che poco o nulla hanno a che fare con essa, più il Vaticano emerge come “segno di contraddizione”, più si conferma la sua impronta divina. Resta però il fatto che entrambe le letture prevalenti, quella genericamente tradizionalista che lo vede come uno strappo rispetto alla “vera” chiesa – con ciò intendendo quella tridentina – e quella progressista che – sulla scia della Scuola di Bologna – lo interpreta invece all’insegna della discontinuità, qui intesa positivamente come apertura alla modernità, peccano di miopia. Col risultato che il Vaticano II rischia di finire intrappolato nelle secche di una disputa sterile. Delle due, quella che storicamente ha avuto la meglio è stata la seconda, la cosiddetta ermeneutica della discontinuità, complice anche una rappresentazione mediatica del Concilio (non a caso Benedetto XVI nel discorso al clero di Roma del 14 febbraio 2013 ha parlato di “concilio virtuale”) che ha supportato, da un lato, ed alimentato essa stessa, dall’altro, una ben precisa ricezione del Vaticano II, dentro e fuori la chiesa. E se nel post Concilio ci sono stati sbandamenti, deviazioni ed eccessi, come chiunque può facilmente constatare, ciò è stato dovuto anche ad una ben precisa interpretazione del concilio sulla base della quale più d’uno, e in diversi ambiti (liturgico, teologico, ecclesiologico, pastorale, ecc.) si è sentito autorizzato a vivere e pensare la chiesa come se il Vaticano II fosse l’anno zero, la fine del vecchio e l’inizio del nuovo, un nuovo in nome del quale si potevano (e forse si dovevano) mutuare acriticamente categorie, adottare forme e contenuti della modernità per stare finalmente al passo con i tempi. I risultati li conosciamo bene: crisi delle vocazioni e seminari svuotati, crisi del sacerdozio e conseguente abbandono dello stato clericale da parte di tantissimi preti, alcuni dei quali – per stare vicino al popolo, come si usava dire all’epoca – smisero la talare per andare in fabbrica (sul punto, sarebbe interessante sapere quanti, dopo aver lasciato il sacerdozio, sono rimasti a fare l’operaio..), bizzarrie e amenità liturgiche di vario genere (messe beat ecc.), smottamenti in campo dottrinale (si pensi alle varie teologie della liberazione e, più in generale, al tentativo, teorico e pratico, di tenere insieme Cristo e Marx, che in ambito politico è sfociato nel cattocomunismo) e morale – esemplare in tal senso la battaglia contro l’Humanae Vitae di Paolo VI, il cui pontificato, forse perché schiacciato tra quello di due giganti come Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, viene spesso ed ingiustamente sottovalutato; e ancora, crisi del principio di autorità (le cui conseguenze, ad esempio nel campo educativo con l’esperienza di don Milani, sono sotto gli occhi di tutti). L’elenco potrebbe continuare a lungo. Fatti e misfatti che hanno, per contro, confortato i critici da destra del Concilio, che hanno avuto buon gioco nel prendersela direttamente con il Vaticano II, visto come la causa remota di tutti i mali. Insomma gli sbandamenti, gli eccessi e, in alcuni casi, gli errori del post concilio si dovevano non agli uomini che, magari pure in buona fede, presero degli abbagli sulla scia di un’interpretazione egemone e strumentale dell’evento conciliare, ma al Concilio stesso. Con un’analisi siffatta, la cura era presto detta: riportare le lancette dell’orologio alla chiesa pre-conciliare. Senza se e senza ma. Una prospettiva, questa, che con l’elezione di Papa Francesco, il tradizionalismo cattolico sembra voglia riproporre con rinnovata vis polemica. Ora. Che la stagione del post concilio abbia avuto più ombre che luci, credo sia un dato di fatto difficilmente contestabile. Il punto però è che qui si rischia di buttare il bambino con l’acqua sporca. La chiesa di oggi non ha bisogno né di un Trento II né, tanto meno, di un Vaticano III; ciò di cui ha bisogno è di tornare al Vaticano II, quello vero. Che resta un evento straordinario dove lo Spirito realmente ha parlato alla Chiesa suscitando – nonostante i limiti e le debolezze dei sui membri – un’azione di rinnovamento nella, non contro né oltre la tradizione – come ha sottolineato Benedetto XVI nell’ormai celebre discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005, rileggendo il Concilio alla luce dell’ermeneutica della riforma – che in parte ha recepito le istanze del rinnovamento biblico, liturgico e teologico degli anni precedenti, in parte ne ha suscitate di nuove, il tutto cristallizzandosi nei documenti finali dell’assise conciliare, vere perle di sapienza, ai quali bisogna tornare, con umiltà e discernimento. E senza dimenticare che proprio in quegli anni lo stesso Spirito che soffiava nella basilica di S. Pietro era all’opera per suscitare nuove comunità e movimenti ecclesiali come CL, i Focolarini, il Cammino Neocatecumenale, il Rinnovamento nello Spirito, ecc., dove molte delle istanze del Concilio hanno trovato attuazione, e dove decine di migliaia di uomini e donne hanno potuto riscoprire la fede, e altrettanti hanno potuto incontrare Cristo per la prima volta sotto la vigile guida dei pontefici e dei pastori. Tutto ciò è accaduto grazie al Vaticano II che: ha rimesso al centro della vita dei fedeli la Parola di Dio (Dei Verbum); ha varato una riforma liturgica (Sacrosanctum concilium) dove la Messa è non è più un assistere passivamente ad un rito, ma partecipazione attiva, personale e allo steso tempo comunitaria, al Mistero pasquale di Cristo, cioè sacrificio, e quindi morte, e Resurrezione, quindi vita (resurrezione senza la quale, vale la pena ricordarlo, l’intera impalcatura della fede cattolica crolla come un castello di carte); ha riproposto, tornando alle fonti, un’ecclesiologia (Lumen Gentium) dove la chiesa è Corpo di Cristo e popolo di Dio, all’interno della quale ciascun fedele, in virtù del battesimo, partecipa all’unico sacerdozio di Cristo, senza nulla togliere al sacerdozio ministeriale riservato esclusivamente ai presbiteri. Col risultato di desacralizzare – e forse questo è il vero problema, ancora oggi – la figura del prete, e di affermare al contempo il ruolo del laicato, non più mero ricettore o utente passivo, ma protagonista attivo nella vita della chiesa. Tre riforme – biblica, liturgica, ecclesiologica – che non hanno scalfito di una virgola il Depositum Fidei, cioè la Tradizione, ma al tempo stesso hanno portato, o quanto meno hanno posto le premesse per portare, il cristianesimo nella vita concreta, umana ed esistenziale, degli uomini e delle donne del suo e nostro tempo, fedelmente alla regola aurea enunciata da Gesù stesso – vero e proprio antidoto contro ogni ideologizzazione – secondo cui “non è l’uomo per il Sabato, ma il Sabato per l’uomo”. Che poi significa una cosa molte semplice: o la fede (che è ragione e cuore) innerva di sé la vita, e si fa quindi storia, oppure è aria fritta e sterile intellettualismo che non ha mai salvato nessuno. E allora se è vero, come è vero, che la crisi attuale è primariamente crisi di fede, la cura non è fare marcia indietro per tornare alla messa tridentina (in latino, che la gente non capisce), o al catechismo di S. Pio X (intellettualistico e nozionistico, per nulla biblico ed esistenziale), o alla pastorale sacramentale (che presuppone una fede che spesso non c’è più) e a tutto l’armamentario delle pratiche di pietà (anche qui, ci vuole fede) e ad una morale casuistica lontana anni luce; e neanche vagheggiare balzi in avanti o addirittura un Vaticano III, ma restare al Vaticano II, accompagnandone l’attuazione con un rinnovato slancio missionario, in linea con la nuova evangelizzazione lanciata a suo tempo da Giovanni Paolo II, proseguita da Benedetto XVI, e ora al centro del pontificato di Francesco (che a proposito dell’interpretazione del Concilio, nei giorni scorsi ha definito mons. Agostino Marchetto – uno dei critici più severi dell’ermeneutica progressista della Scuola dei Bologna – il “più grande ermeneuta del Vaticano II”), come si evince da questo primo scorcio del suo ministero e dal titolo stesso della sua prima esortazione apostolica: Evangelii Gaudium.