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Le parole che Napolitano avrebbe voluto dirci

Negli annali della politica italiana, con ogni probabilità il 2013 verrà ricordato come l’anno delle tensioni irrisolte, delle aspettative deluse e dei tentativi andati a vuoto.

Vano, anzitutto, appare il tentativo di dare un governo forte al Paese saldando con la fiamma ossidrica del Quirinale due fazioni unite per un intero ventennio dal reciproco antagonismo e coagulandola attorno ad Enrico Letta.

Forte, forse troppo forte il riflesso pavloviano di mutua delegittimazione e l’effimero desiderio di stringere finalmente – una volta, almeno – lo scalpo raggrinzito dell’Altro prima di tramutarsi in cenere e disperdersi ai quattro venti dell’antipolitica tumultuante.

L’esecutivo guidato da Enrico Letta è nato un po’ così, a conclusione del travaglio immane di urne senza vincitore e di un capopartito – Pierluigi Bersani – che a lungo si è ostinato a corteggiare i grillini del 5 Stelle per alitare, come un maestro rabbino fai-da-te, la vita nel petto di un golem governativo all’insegna del “tutto tranne Berlusconi”. Non immaginava, Bersani, che avrebbe rimediato solo pernacchie, e che sull’altare della propria ostinazione avrebbe sacrificato tutto, ma proprio tutto. Al Capo dello Stato Giorgio Napolitano, forte dell’appoggio silenzioso dei numerosi dalemiani pronti a tutto pur di evitare il rientro di Romano Prodi, venne approntato in poco tempo un ticket to ride per un altro giro di giostra a vorticosa velocità e senza rassicuranti precedenti.

Fuori Bersani, dunque, dentro il conciliante Enrico Letta. A lui, a questo pisano figlioccio politico di Beniamino Andreatta, il biglietto di sola andata per l’Inferno e la missione scritta in inchiostro simpatico: governare con destra e sinistra per modificare l’architettura dello Stato, rendere fungibile una volta per tutte una macchina dalle ruote quadrate e rombare via, prima che la marea nera dell’antipolitica tutto travolga.

Il destino è stato beffardo con Giorgio Napolitano, figura più unica che rara della I Repubblica, galantuomo d’altri tempi, comunista dall’inglese impeccabile amato a Washington. Gli ha tributato un viaggio senza fine nelle viscere della politica, un tour nella fossa delle Marianne delle grandi ideologie. Poi su, in superficie, più su, ma non troppo visto che il Quirinale sorge ad appena 61 metri sul livello del mare. Il tutto senza mai accantonare l’idea che il sistema partitico italiano possa davvero essere riscattato dalle proprie macerie, che sulle miserie della Seconda Repubblica possa germogliare un nuovo getto vigoroso, affidato alle cure amorevoli di quei pochi giovani cresciuti al crepuscolo della Prima Repubblica.

Finora i piani non sono andati come auspicava il Colle, pur nella consapevolezza che in politica il compromesso è d’obbligo, la rinuncia anche dolorosa spesso necessaria. Le cose si sono fatte parecchio complicate da quando il potere giudiziario ha attivato il meccanismo che in pochi mesi ha messo alla porta Silvio Berlusconi e ha riattivato in lui i meccanismi di difesa-offesa di chi teme per la propria libertà e i propri possedimenti.

Pensava, Berlusconi (probabilmente lo stesso Napolitano anche se non ne avremo mai conferma) che un ruolo da comprimario nel governo di larghe intese potesse mitigare l’azione giudiziaria contro il leader del centrodestra. Pensavano, i molti italiani cresciuti a pane e dietrologia, che il Colle potesse sguinzagliare armate nere in grado di congelare istantaneamente i palazzi di Giustizia e bloccarne il dito sul grilletto, manco disponessero dello stesso gas nervino usato nel 2002 dai reparti speciali russi per paralizzare le vedove nere cecene asserragliate nel teatro della Dubrovka. Non è andata così, al Colle è toccato assistere all’opera della macchina della giustizia e mandare pure giù qualche ghiottone amaro, come quando alcuni dei suoi amatissimi saggi costituzionalisti sono stati interessati da inchieste a strascico su presunti concorsi universitari pataccati, con grande frastuono mediatico. Dal Colle le armate nere – non esistono, ma la gente non si rassegna ad archiviare anche questo feticcio – non sono mai partite, i corazzieri sono rimasti al loro posto, i messaggeri non sono mai partiti o hanno trovato orecchie sorde. È andata prevedibilmente così, e oggi Enrico Letta dispone di una maggioranza molto più sottile, che salva appena le apparenze delle larghe intese grazie a qualche pugno di senatori fuoriusciti dal PDL e riuniti sotto Angelino Alfano. Per le riforme i numeri sono risicati, non bastano per le riforme costituzionali, forse per la riforma elettorale.

Alle porte preme l’indignazione, dentro le mura del PD già s’avanza un nuovo puer invictus dal vistoso accento toscano che lascia intendere di volere l’investitura del voto popolare se proprio non sono possibili le riforme. Già, che ne è delle riforme che avrebbero dovuto rimettere in sesto la macchina governativo-parlamentare? Sono possibili solo con l’appoggio “semiesterno” di Berlusconi, in quella che si preannuncia la vera trattativa a oltranza dei primi del 2014. Chissà se nel discorso del Colle ci sarà qualche traccia di tutto questo?



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