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Glassing: quante cose ci dice uno spot

La rubrica “Quante cose ci dice uno spot” è sulla notizia. Già. Perché si è alzato un bel polverone sulla Glassing, azienda comasca che sta lanciando il proprio marchio di occhiali vintage e che ha scelto una poesia di Peppino Impastato per il suo messaggio pubblicitario che da giorni va in onda sulle principali reti televisive. La famiglia di Peppino Impastato si è, infatti, detta fortemente contraria all’utilizzo delle parole di Peppino per veicolare messaggi consumistici e si muoverà legalmente per fermare lo spot.

Pasquale Diaferia, il direttore creativo che ha sviluppato lo spot assieme con il management della Glassing, si difende sostenendo che gli spot pubblicitari, come tutte le forme di comunicazione, possono svolgere una funzione civile. E porta l’esempio di altri testimonial, come ad esempio Gandhi, che sono stati oggetto di fortunate campagne pubblicitarie. Attenzione però. Nel fortunato spot di Telecom Italia, Gandhi veniva mostrato come icona. Ciò che Gandhi proferiva nello spot non veniva ascoltato. L’obiettivo dello spot non era il contenuto delle sue parole ma mostrare, nel dipanarsi della sequenza delle immagini, il fatto che tutti lo stavano ad ascoltare. Si trattava di giocare sull’effetto patemico indotto, non dal contenuto testuale contenuto nelle parole di Gandhi, ma dal vedere come i soggetti rappresentati nello spot si appassionavano alle sue parole. Aspetto questo molto efficace per promuovere un operatore delle telecomunicazioni come Telecom Italia.

Nel caso della Glassing il tutto è rovesciato. Non c’è alcuna analogia con lo spot di Gandhi. E nessun effetto patemico si realizza. Peppino Impastato non è mostrato. Non è eletto a icona. Il protagonista dello spot recita la poesia di Peppino Impastato evocando il tema dell’importanza della bellezza per arrivare al claim dell’azienda “non è importante quello che vedi ma come lo vedi”. E se non fosse per la didascalia, che compare in sovraimpressione alla fine dello spot, nessuno avrebbe associato le parole della poesia, bellissime, alla persona di Peppino Impastato.

Lo spot, che non sembra ben congegnato, non poteva sperare però in un risultato migliore. Il dibattito e la polemica suscitati dallo spot hanno generato un moltiplicarsi di passaggi televisivi e di rimandi, riflessioni e analisi sui media. Una campagna nella campagna dal controvalore economico ben superiore al budget stanziato per il controverso spot.
Perché a parlare di mafia e di antimafia, alla fine, fanno tutti 13. Perché a parlare di mafia una cosa è sicura: ci si divide. E senza stare tanto a scomodare latino e latinorum – divide et impera – , divisioni portano discussioni e la polvere si alza in una trubbiana mediatica. Non a caso, nel film di Pierfrancesco Diliberto, manco a dirlo di Mafia, ogni volta che alla radio o alla televisione viene evocata la Mafia come responsabile di qualche efferato delitto o fatto, c’è sempre qualcuno pronto a contraddire la notizia e a fabbricare una verità opposta.
Fino ad arrivare al paradosso, nella tragicommedia di Ficarra e Picone, dove i mafiosi stessi, in un grottesco ed esilarante scambio di pizzini, non sanno mettersi d’accordo neanche tra di loro.

Perché, alla fin fine, in questa epoca disgraziata dove non c’è uno straccio di ideologia cui aggrapparsi, in cui non c’è un’avanguardia che detta uno stile e uno sguardo oltre il balcone di casa, anche la pubblicità, mischina lei, non può che correre dietro a una bandiera nel Limbo della creatività. Bandiera che quelli che non sanno dove sbattere la testa e che vogliono parlare difficile chiamano sincretismo.



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