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Il Jobs Act non assomigli al Sister Act

Da un paio di giorni escono sui media varie anticipazioni di quello che il Segretario del PD Matteo Renzi (la lingua inglese pare non sia il suo forte) chiama “Jobs Act”.

DI COSA SI TRATTA
In senso tecnico, si tratterebbe non di un testo unico per mettere ordine nella selva oscura della normativa sul mercato del lavoro e neanche di un piano per l’impiego o di una legge per facilitare la creazione di posti di lavoro (questa è la traduzione letterale di “Jobs Act”). Sarebbero, invece, una serie di indicazioni di politica economica (ed in parte di politica legislativa) per facilitare l’impiego, specialmente dei giovani.

UN’USCITA TEATRALE
Dato che le notizie sono frammentarie e disorganiche, è difficile capire perché i sedicenti “giovani turchi” applaudano e l’onorevole Brunetta (autore del piano del lavoro 1986) annunci bocciature. Di solito, quando vado a teatro, aspetto la fine dello spettacolo prima di battere le mani e fischiare. Ed, in effetti, quello che è sino ad ora apparso sul “Jobs Act” dà l’impressione di una “uscita” molto teatrale del neo Segretario del PD, un debutto su un tema caldo e vicino al cuore di tutti gli italiani.

DI TUTTO UN PO’
Le anticipazioni, però, danno pure l’impressione che sia in serbo un “Sister Act”, l’opera buffa americana di Cheri e Bill Steinkellner che grazie a Whoopy Goldberg diventò un film di grande successo pure in Italia (e venne presentato in teatro in traduzione ritmica). In effetti, c’è un po’ di tutto; aumento dei prelievi tributari sulle transazioni finanziarie per finanziare sgravi fiscali sul costo del lavoro, un “contratto unico” a tutele progressive per inserire i giovani nell’impiego, riduzione dei costi per l’energia, sussidi universali, spending review per l’occupazione ed il sociale e individuazione dei settori chiave per lo sviluppo. C’è il rischio che questo “fritto misto” dia luogo ad un vaudeville, quindi ad un “Sister Act” di borgata, più che ad una politica legislativa.

GLI ASPETTI POSITIVI
Intendiamoci, non mancano cose buone; ad esempio, sostengo da oltre due lustri la proposta di un contratto unico di inserimento (ben articolata da Tito Boeri e Pietro Garibaldi in numerosi loro scritti recenti), mantenendo per alcuni settori (spettacolo, aeronautica, alte specializzazioni) il contratto di lavoro interinale. Sostengo pure da tempo l’inutilità degli attuali Centri per l’Impiego e l’urgenza di razionalizzare il “non sistema” ItaliaLavoro Spa, Ales, Isfol (del cui CdA ho fatto parte per cinque anni, specialmente per impedire disastri e clientele). Sostengo che è da lustri urgente una revisione degli ammortizzatori sociali andando verso sussidi uniformi per quelli che perdono l’impiego e per quelli alla ricerca di prime occupazioni. Se il “Jobs Act” vuole dire queste cose, non fa che ripetere quanto propongono da anni persone di buon senso; se Matteo Renzi riesce farle diventare leggi dello Stato sarebbe un ottimo esito, ma privo di contenuti operativi.

TORNA LA POLITICA INDUSTRIALE
La parte innovativa è nella definizione di “settori chiave” o “settori strategici”. Si può essere d’accordo o meno su questo o quel settore, ma si tratta pur sempre di ridare vita a quella “politica industriale” che da anni è considerata una parolaccia. È su questa materia che occorre lavorare, d’intesa con il Ministro competente che non è quello del lavoro e delle politiche sociali, e muovendosi negli spazi di una normativa europea sulla concorrenza che oggi traccia percorsi più angusti di quelli del passato.

In tal modo, si sarebbe distanti da un “Sister Act”. Il debutto avverrebbe su un palcoscenico serio e con un copione meritevole di grande interesse.

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