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Matteo Renzi, ovvero il nuovo “ghe pensi mi”

Renzi straparla. Minaccia gli alleati dandogli gli otto giorni come un tempo le signore arricchitesi col mercato nero usavano fare con le cameriere non obbedienti. Ordina alle sue truppe parlamentari di allinearsi punto su punto con le ricette studiate dalla grande corte medicea (nel senso di terapeutica) che lo asseconda nei suoi capricciosi mutamenti d’orizzonte, creando un crescendo d’imbarazzi nella stessa burocrazia piddina, quella formatasi nelle radiose giornate delle primarie neppure fossero le nuove carte costituzionali da difendere ed onorare.

Ormai Renzi è lanciatissimo. Si è già stufato di essere il capo della diarchia partito-governo che gli ha consentito di presentarsi come il nuovo che avanza e va assecondato senza discutere. Si presenta ai gruppi parlamentari come fossero stati eletti da un partito renziano che non c’era, non da cittadini elettori di sinistra che avevano lasciato sul terreno più di tre milioni di consensi non solo per le pretese di Bersani, che aveva scambiato il premio di maggioranza (ora apertamente respinto dalla Corte costituzionale come un furto ai danni dell’elettorato nel suo complesso) come un diritto non contestabile.

Ai nuovi dirigenti da lui stesso designati dice col sorriso stampato sul viso: il padrone sono me. Letta non conta nulla. Napolitano gli ha dato troppa corda, gli ha assegnato compiti che il pisano non ha eseguito e, dunque, merita di prendere baracca e burattini e tornarsene ai suoi studi preferiti (quali essi siano). Se gli sta bene, stracci tutti i suoi programmi che sanno di muffa, li strappi, li sostituisca con quelli che gli ha fatto avere la saggia Maria Elena Boschi, proclami che sì, erano quelli e non altri, i progetti che avrebbe dovuto presentare alla camera (altro che pacificazione nazionale e grancoalizionismo), e potrà restare a Palazzo Chigi sino al 2015, anzi, perché no?, sino al 2017, giungendo alla fine naturale della legislatura. Al resto ghe pensi mi. Io sono generoso; non voglio perdere tempo a starmene tre giorni a Roma a rimirarmi le dita, mi piace fare il sindaco della più bella città del mondo.

Quando Alfano lascerà il governo, si potrà fare un altro governo Letta in ventiquattr’ore, visto che il porcellum è stato cancellato ma i duecento deputati in più del premio di maggioranza nessuno me li può togliere. Se il pisano storcerà il naso, mal gliene incolse, se la sarà andata a cercare: lo sostituisco magari con una trentenne aretina che conosce bene più lingue. E, se non sarà d’accordo, dovrà sorbirla come primo ministro donna della storia italiana. Che, naturalmente, io, da Firenze, terrò ben stretta con le dande perché non inciampi in qualche riserva tecnica di Napolitano. Ora comando io, e non c’è nessuno che osi comandare a me.

Votare? Quando mi farà comodo e le stelle mi saranno favorevoli. O non c’abbiamo sempre vivo, ad Arcetri, lo spiritaccio di Galilei a indicarci la via per restare in piedi in eterno, ad occuparci di jobs act e di jus soli e di civil partnership come si conviene a chi mastichi un tantino inglese, come i bancarellai fiorentini? Ora io affermo e dico. Tutti assentano e zitti. Se osano fiatare, li prendo a bacchettate sulle dita delle mani, come si fa nei più classici college inglesi.



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